Quale miglior modo di onorare la memoria di uno studioso di valore, se non pubblicando qualche suo saggio? Riproponiamo questo saggio del filosofo e studioso Ernesto Paolozzi, recentemente scomparso, sul giovane Guido Dorso.

Un giovane studioso, formatosi negli anni immediatamente successivi al Sessantotto, potrebbe avere una qualche difficoltà a comprendere appieno, in tutte le sue sfumature e implicazioni, l’annosa questione del rapporto fra Stato e Chiesa, quel rapporto che Croce definiva, per certi aspetti, simbolicamente eterno, al di là dei singoli Stati e delle singole Chiese storicamente determinatisi.

Da quella data, che sembra rappresentare una sorta di spartiacque generazionale, radicale e profondo, appare infatti pienamente realizzatasi quella tendenza, che tanti filosofi e studiosi già segnalavano negli anni precedenti, che è stata definita della scristianizzazione o della secolarizzazione o dell’assoluta laicizzazione della cultura e della civiltà del mondo occidentale. E certamente, nella nostra società contemporanea, il triplice rapporto fra Stato laico, Chiesa e dimensione religiosa individuale, ha assunto decisamente caratteri diversi, essenzialmente relegati nella sfera della coscienza, dell’intimità personale. Eppure ciò nonostante, in maniera diversa, certamente più sfumata e forse complessa, di tanto in tanto le tre dimensioni tornano ad incontrarsi, e talvolta a scontrarsi, su temi non immediatamente politici ma certamente etico-politici e perfino metafisici se non filosofici. Basti pensare alle grandi questioni dell’aborto e del divorzio, dell’eutanasia e della genetica, della guerra e della pace, che rimettono in gioco principii fondamentali che, progressivamente, si fanno di nuovo posizioni politiche, posizioni di schieramento ideologico, scontro fra partiti e movimenti.

Riaffiorano, quindi, quei motivi e quei sentimenti che hanno per tanti anni caratterizzato la storia europea e quella italiana in particolare. Storia che ebbe i suoi momenti di maggiore, drammatica, rilevanza, negli anni che vanno dal 1848 alla seconda metà del Novecento e si scandì nei fondamentali avvenimenti del Risorgimento italiano e nella costruzione dell’unità della nazione.

Il giovanissimo Guido Dorso dedicò, appunto, la sua tesi di laurea a questi temi ed in particolare alla personalità che più delle altre seppe interpretarli da un punto di vista raffinatamente giuridico oltre che, naturalmente, etico-politico: Pasquale Stanislao Mancini.(1)

Lo studioso di Castelbaronia, in provincia di Avellino, nato nel 1817 e morto nel 1888, fu fra gli uomini politici di maggior prestigio della nostra vita politica. Deputato di Ariano, fu nel 1861 a Napoli Consigliere di luogotenenza per il dicastero di Grazia e Giustizia per gli affari ecclesiastici, Ministro nel 1862, quando sostituì il suo conterraneo Francesco De Sanctis alla Pubblica Istruzione e poi ministro della Giustizia nel cruciale biennio 76-78 con De Pretis e infine Ministro degli esteri dal 1881 all’83.

Decisiva fu anche, se non soprattutto, la sua dimensione di studioso del diritto internazionale che lo collocò fra i più grandi studiosi europei e la sua concezione, moderna e rigorosa, del principio di nazionalità rimase fondamentale e segnò i nuovi confini fra i rapporti dello Stato e della Chiesa sia in campo nazionale che internazionale. Per Mancini, esule in Piemonte, fu istituita la prima cattedra di Diritto internazionale (2) con la legge del 14 novembre 1850. Lo studioso aveva iniziato “il suo corso, scrive Giovanni Spadolini, leggendo il 22 gennaio 1851 la famosa dissertazione intitolata Della nazionalità come delle fondamento del diritto genti. Quasi un terremoto, per le cancellerie internazionali, per gli austriaci e anche per la destra savoiarda e isolazionista. Un testo caro, continua Spadolini, a tutta la scuola giuridica democratica, un testo che nel 1920 sarà ripresentato e commentato proprio da Francesco Ruffini, il grande maestro del diritto pubblico italiano nelle relazioni fra Chiesa e Stato che per tanti aspetti si riallacciava all’insegnamento di Mancini, pure temperandone la vena anticlericale e antichiesastica con un rigore scientifico e dottrinario che era svincolato dalle passioni della lotta risorgimentale.” (3)

Da queste parole si comprende quanto fosse importante per il giovane Dorso, futuro autore de La Rivoluzione meridionale e intransigente protagonista dell’azionismo democratico e liberale del nostro Novecento, incontrare la lezione del grande giurista e dell’uomo politico che volle in tutti i modi tracciare una linea rigorosa e sicura per la nascente nazione italiana.

D’altro canto, la stessa formazione del Dorso, del giovanissimo Dorso, contiene in sé le premesse per questo felice incontro. Scrive lucidamente Francesco Saverio Festa riferendosi ai primissimi studi di Dorso dedicati a Giordano Bruno, a Mazzini, a Rodolfo Eucken: ” Da questi giovanili studi filosofici, testimoniati anche dalle frequenti annotazioni in margine ad alcuni testi della sua biblioteca, Dorso trae, da una parte, una profonda attenzione ai temi spiritualistico-religiosi, che gli permise di comprendere nella giusta misura il fenomeno religioso, pur ricusandolo, dall’altra un autentico rigore etico che sarà il segno della sua opera sino alla morte. Ne è larga misura testimonianza, continua Festa, allargando le tematiche dell’articolo apparso su “La Fiaccola”, la sua stessa tesi di laurea in giurisprudenza, La politica ecclesiastica di P.S. Mancini, discussa all’Università di Napoli il 30 maggio 1915.” (4)

Il giovane studioso mostra già con evidenza, in questa sua tesi di laurea, quell’atteggiamento che ritroveremo negli anni successivi. Scrive: “La Chiesa non è in condizioni normali perché non è ancora ridotta solamente allo spirituale, perché è ancora pervasa dalle idee ultramondane, perché anzi dal 1864 in poi con la pubblicazione del Sillabo ha accentuato l’indirizzo che con un vocabolo di moda potrebbe chiamarsi intransigente.” Attraverso Mancini rivive la grande tradizione italiana, e meridionale in particolare, del giurisdizionalismo, di quel grande martire della nostra cultura politica che fu Pietro Giannone, non a caso trasversale alle correnti etico-politiche liberali e non a caso, per tanti aspetti, pur sempre minoritario nella cultura italiana, anche quella laica e progressista. Nell’ambito del liberalismo italiano non solo il giannonismo, com’è ovvio, fruttificava fra le frange più radicali ma anche nell’ambito della cultura liberale di stampo crociano, come mostra la cura che ebbe un interprete di Croce, Alfredo Parente, nel divulgare l’opera di Giannone ripubblicando il Triregno.

La posizione di Dorso è chiara: l’Italia fallirebbe la sua missione se non tenesse fede al suo principio di nazionalità, se non ponesse fine al potere temporale dei Papi, “missione determinata dal principio di nazionalità, anima, fondamento e fine della rivoluzione italiana.”

Ecco un altro punto centrale della questione che s’intreccia con l’intero percorso interpretativo di Dorso. In questa prospettiva, Mancini è personalità centrale. Precisa, infatti, Dorso: “Ma le proteste del Papato, la sua immobilità elevata a suprema direttiva politica, l’ostilità aperta, palese al nuovo Regno, insegnavano al Mancini  che cominciava quel periodo di trapasso, che egli aveva previsto fin dal 1867, in cui le due potestà si sarebbero continuamente osservate: la potestà ecclesiastica per tentare di cogliere il momento buono per riavere il perduto potere temporale: la potestà civile per assicurarsi che l’antagonista fosse effettivamente rientrato nell’orbita spirituale. Per quanto dunque tale momento, continua Dorso, presentasse tutti i caratteri della transitorietà era semplice e naturale che, come esso poteva condurre ad una sincerazione da parte dello Stato della bontà delle intenzioni della Chiesa, così poteva condurre egualmente alla riaffermazione della intransigenza curialista. Quindi la necessità da parte dello Stato di non uscire dalla politica tradizionale per non dimostrare con eccessive dolcezze o rigori le proprie tendenze e le proprie aspettative. Ché anzi a riguardo di queste ultime il Mancini, addottrinato dall’esperienza del passato, precisava il suo angolo visivo nel senso di una sempre maggiore sicurezza di ostilità da parte della Curia. – E traeva quindi motivo da ciò per affermare la necessità di una politica vigile e di un sistema legislativo di relazioni tale che, pur senza quegli istituti preventivi, condannati unanimemente dalla dottrina, potesse rendere sicure in ogni conflitto le supreme ragioni dello Stato. Questa concezione vigile, diritta, lucente, riponeva anche nel  1871 nella sua vera luce la formula cavouriana, perché la dimostrava ancora formula di avvenire quale oggi si palesa ancora.”

Già, dunque, in questo scritto giovanile si possono rintracciare i tratti della personalità di Dorso ma anche i temi centrali della sua riflessione matura: l’interesse per il nostro Risorgimento, l’attenzione specifica alla questione meridionale e, come si è accennato, l’idea politica generale, vorremmo dire il metodo, con la quale affrontare le tematiche centrali della storiografia e della congiunta azione politica italiana. 

Nel secondo capitolo della tesi, a proposito dell’ardua fatica che il Mancini aveva intrapreso a Napoli nella riorganizzazione della politica ecclesiastica nel 1861, con incisività e senza tentennamenti, Dorso esprimeva un giudizio che contiene, come si è detto, il germe della sua futura posizione etico-politica. Vale la pena citare anche lungamente: “Quindi, scrive lo studioso, non spirito giacobino, né violenza settaria guidarono il Mancini nella vigorosa azione, rivolta ad estirpare le male piante della reazione che sfruttando antiquate concezioni e barbari costumi, miravano a far fallire uno dei più nobili tentativi di resurrezione; bensì aperta visione di uomo politico ed amore di patria che, antivedendo il futuro, segnava la coincidenza piena ed aperta della vita meridionale con la nascente e prosperante vita nazionale.”

Dorso continua in questo giudizio storico appena appena viziato da qualche retorica tipicamente giovanile, ma perfettamente spiegabile nell’entusiasmo dell’uomo di fede politica e di generosità etica, abbozzando un ulteriore disegno comprendente l’intera storia etico-politica del nostro paese. “Non che egli (il Mancini), scrive dunque Dorso, si facesse illusione che i soli provvedimenti repressivi potessero sanare uno squilibrio che non era solo una conseguenza artificiale dell’opera clericale, ma invadeva con le sue radici robuste tutto il sottosuolo dell’economia e della società! Ed invero tal cosa egli dichiarò apertamente nel Parlamento Nazionale in epoca posteriore, quando, permanendo le cause naturali del malessere, distrutti o soffermati gli sforzi anti-unitari, venne in pubblica discussione apertamente la questione meridionale, cui da molti si chiedeva il suffragio dell’opera governativa che ad essi era sembrata tardigrada e talvolta anche inefficace. In tal occasione il Mancini, continua Dorso, potette dimostrare col racconto di quel brano di storia, che egli aveva contribuito  a creare, non solo i grandi insegnamenti del giurisdizionalismo, arma non ancora spuntata nelle mani dei governi, che sapessero saviamente adoperarla, ma più ancora la necessità della repressione anticlericale e antiborbonica che permettesse di leggere sotto le esagerazioni dei fenomeni sociali le profonde ragioni che li determinavano e l’opportunità dei vari rimedi da escogitarsi. Sicché, mentre egli aveva compiuto opera potremmo dire di prefazione, al governo centrale spettava allora l’esame spassionato della questione senza che essa fosse più intorbidata da quel groviglio di cause sovrapposte, che l’avevano resa così tenebrosa nel 1861.”

Ma quelle tenebre, sappiamo, riscenderanno, secondo Dorso, sulla politica italiana e, di fatto, non si diraderanno più. Poco più che trentenne, in quello che è il suo Manifesto politico, La rivoluzione meridionale, Dorso traccia le linee fondamentali della condizione politica italiana ed assieme propone la sua posizione per l’azione futura. L’analisi storica si presenta come una grande semplificazione, di origine gobettiana, della storia risorgimentale e post-unitaria. Gli ideali del Risorgimento si sarebbero perduti: alla rivoluzione liberale si è sostituita la “conquista regia”.  “La caratteristica essenziale, scrive, del nostro Risorgimento è costituita dal dissolvimento di tutte le correnti ideali, che si disputarono la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese.” (5)

Venti anni dopo, nella Prefazione alla seconda edizione del 1944, sia pure con toni molto più pacati, Dorso riconfermava la sua analisi. Ribadiva le dure requisitorie condotte nei confronti dell’intera storia italiana fino ad arrivare al giolittismo. Nel momento in cui lo Stato italiano era in crisi, e si vedeva costretto ad usare sistemi polizieschi, “fu ventura, scrive lo studioso, per le oligarchie al potere trovare in Giovanni Giolitti l’uomo della Provvidenza, che, allontanate le correnti reazionarie, intuì che era pericoloso alterare i dati storici della politica italiana, e, perciò, avviò il paese, attraverso una serie di transazioni con la rivoluzione dilagante, verso un nuovo sistema di compromesso, assai più vasto di quello che aveva presidiato all’origine la nascita dello Stato.” (6)

L’interpretazione della storia italiana si andava, così, concludendo ed emergeva l’originale posizione del grande meridionalista: il nemico da sconfiggere era lo “Stato storico”, le sue strutture accentrate, l’istituzione monarchica e la vecchia classe dirigente meridionale dalle inesauribili risorse “trasformistiche”.

In questo ampio quadro, sul piano storiografico generico ma molto stimolante per l’azione politica, come Dorso colloca la conquista regia, il potere dello Stato storico nei confronti del vecchio regno?  Egli accoglie e fa sue le analisi fortunatiane sulla inferiorità geografica del Mezzogiorno pur ritenendole, giustamente, superabili e incentra la sua analisi su fattori squisitamente politici o politico-economici: “Emerge, quindi, scrive Dorso, chiaro fin da questo momento che ad aggravare gli originari fenomeni di inferiorità economica e di patologia demografica che caratterizzano la costituzione sociale del Mezzogiorno, molto ha contribuito  e contribuisce tutt’ora lo Stato, che, organo supremo del diritto, da fonte precipua di eticità, si trasforma in Italia in organo del privilegio, in fonte continua e perseverante dell’ingiustizia.

“Con la sua politica finanziaria, lo Stato non soltanto non fa niente per rimuovere quelle ragioni di ordine naturale che costituiscono causa di inferiorità delle nostre terre, ma contribuisce ad aggravarle, addossando al Mezzogiorno, costituito in mercato di arredamento della plutocrazia industriale del settentrione tutte le conseguenze di un protezionismo ingiusto ed antinazionale; adottando un sistema tributario, assolutamente sperequato a danno della ricchezza immobiliare prevalente nel Sud, e conseguendo, anzi incoraggiando il continuo drenaggio di capitali meridionali nelle banche del Nord e nel debito pubblico, per finalità che col risorgimento del Mezzogiorno non soltanto nulla hanno a che vedere, ma sono addirittura antitetiche.”(7)

Pur senza voler indulgere a nessuna forma di esagerato contemporaneismo e consapevoli che in più di settant’anni di storia molte condizioni sono mutate, non c’è chi non possa vedere nella condizione attuale, almeno delle finanze del Mezzogiorno, una situazione uguale, anzi peggiore, a quella descritta da Dorso. Nel terzo millennio il Mezzogiorno d’Italia non possiede più nemmeno una banca di carattere nazionale, e perfino l’antico e glorioso Banco di Napoli è stato assorbito da una grande banca piemontese e, in seguito, del tutto internazionalizzato.

Tornando al nostro discorso di carattere storiografico, è bene sottolineare, ancora una volta, l’analisi economica ed etico-politica di Dorso che, anche in questo caso, invera la lezione di Giustino Fortunato. D’altro canto, solo interpretazioni superficiali, come ha cercato di mostrare Guido Macera nel volume Eresia Meridionale, purtroppo pressoché introvabile, Macera, che fu discepolo ideale di Fortunato e amico di Guido Dorso, possono aver costretto nell’etichetta di naturalista l’opera fortunatiana che fu, invece, rigorosamente etico-politica.

Da questo punto di vista si potrebbe affermare, e forse a maggior ragione, che anche Guido Dorso si accostava a Croce, col quale, pure, non sempre consentì.

Da queste interpretazioni del nostro meridionalismo più attento e rigoroso, scaturiva la nuova posizione di Dorso, la questione meridionale vista come politica rivoluzionaria. Scrive infatti: “Finalmente la questione meridionale svela intera la sua squisita natura politica, dinanzi a cui gli aspetti tecnici scompaiono per la loro evidente unilateralità, e si palesa risolubile, prima ancora che nel campo legislativo, nelle coscienze individuali, cioè in quell’azione più strettamente e più spiritualmente politica destinata a preparate l‘humus su cui lo Stato politico di diritto dovrà finalmente sorgere. Ed in ciò appunto la sua originalità per alcuni aspetti rivoluzionaria.

“Fino a quando, continua Dorso, i conati rinnovatori italiani si aggireranno nel cielo imponderabile delle astrazioni filosofiche e dei conseguenti giochi di proposizioni e di soluzioni regie, lo Stato burocratico accentratore non temerà sconfitte perché risorgerà dalla polvere fin dopo l’estrema umiliazione.

“La questione italiana, conclude il grande meridionalista, è dunque la questione meridionale, e la rivoluzione italiana sarà la rivoluzione meridionale. Ma con quali forze, con quali forme si può tentare questo compito?” (8)

Dorso risponde individuando nelle forze produttive, e in una nascente e, per così dire edificanda, borghesia moderna la forza che può e deve trovare interesse a combattere lo Stato storico, a fare entrare, finalmente, il Mezzogiorno nell’Evo moderno, abbattendo il vecchio e suicida trasformismo delle classi dirigenti meridionali. Lo strumento politico non può che essere, e questo è certamente il momento di maggiore originalità del pensiero politico del giovane Dorso, l’autonomismo, l’autogoverno del Mezzogiorno. Da qui la serrata polemica nei confronti dei partiti unitari, dei meridionalisti che aderivano a questi partiti, e la presa di distanza da quanti, pur polemizzando nei confronti dello Stato storico, non ne mettevano in discussione le radici. Ecco, dunque, sorgere il sogno di un partito d’azione meridionale e autonomista (un parziale modello era per Dorso il Partito Sardo d’Azione) fondato e diretto da una élite compatta, coraggiosa e intransigente.

Non c’è dubbio che l’analisi dorsiana possa lasciare per molti aspetti perplessi. In essa si leggono chiaramente il piglio intransigente, certe volte il rigorismo astratto, di Gobetti ma assieme l’intelligenza e la passione che sempre guidarono lo sfortunato autore de La rivoluzione liberale. Ci si può chiedere, infatti, come mai Guido Dorso non si ponga mai il problema della possibilità della realizzazione del suo progetto politico se non in maniera estremamente generale, o, talvolta, apertamente ammettendo che la sua era solo un’analisi politica.

È estremamente difficile poter infatti pensare che negli anni nei quali Dorso scriveva fosse possibile realizzare il suo progetto, sia per le condizioni generali del paese, sia per le condizioni particolari in cui versava il Mezzogiorno d’Italia. E non vi è dubbio che non è possibile liquidare in poche battute l’opera di Giolitti e bollarla di trasformismo, annoverandola fra i tanti fenomeni dell’antico e radicato trasformismo politico. Pur fra tanti limiti, la politica dello statista piemontese si fondava su una precisa conoscenza di quella che Machiavelli avrebbe chiamato la realtà effettuale. E in quella condizione, in quella connessione storica, Giolitti forse operava al meglio delle possibilità concrete che gli si offrivano. Ciò appare ancor più evidente se si paragonano le tesi dorsiane al grado di maturità e di complessità politica a cui il meridionalismo era giunto con Giustino Fortunato, appassionato amico di Dorso.  Il grande meridionalista lucano, infatti, era riuscito in una mirabile sintesi a coniugare l’unitarismo con le più radicali critiche alla condotta dello Stato, del governo.

Nel cinquantennio repubblicano la questione meridionale ha pur fatto qualche passo avanti, e ciò è accaduto perché lo Stato ha fatto sentire il suo influsso positivo nel Mezzogiorno, ed è invece regredita proprio quando lo Stato ha rallentato la sua azione e lo stesso Sud si è rinchiuso in forme di mero autonomismo, psicologico più che politico. Un separatismo spesso di segno qualunquista, a cui è sempre mancata la spinta etica e rivoluzionaria presente nelle appassionate pagine di Guido Dorso. E francamente non osiamo immaginare cosa sarebbe stato e cosa sarebbe del Sud d’Italia se lo si fosse lasciato al governo delle sue classi dirigenti, al cosiddetto autogoverno che lo avrebbe condotto, come la nostra esperienza ci insegna, presto fuori dell’Italia ed oggi fuori dall’Europa, in condizioni di sicura inferiorità non solo economica e politica ma, purtroppo, di civiltà.

In che senso dunque Guido Dorso si ritenne e fu discepolo di Fortunato? La risposta si trova forse nelle parole di un altro grande meridionalista dell’ultima generazione, Guido Macera. Nel già citato suo volume dal titolo programmatico, Eresia meridionale, scriveva: “Noi possiamo solo avanzare delle ipotesi e avvalerci dei puntuali ricordi che ci derivano dall’amicizia intellettuale che ci avvinse a Guido Dorso. E rammentiamo che don Giustino rappresentava per Dorso innanzitutto un simbolo di coerenza morale e di probità politica addirittura leggendario in un Paese, come il Mezzogiorno, dove la vita pubblica era troppo spesso stata un contrasto di persone e una lotta di municipio senza alcuna luce ideale e, quel che è peggio, con ben scarsa volontà ed attitudine a intervenire nelle determinazioni fondamentali della politica dello Stato.” (9)

È, dunque, da rintracciare nella forza morale e nella coerenza dei principii, l’elemento essenziale di congiunzione fra il maestro e il discepolo, entrambi appassionati difensori delle condizioni civili delle loro terre.

Ma certamente non è possibile rinvenire soltanto in queste qualità, o virtù come si sarebbe detto un tempo, rare ma pure sempre generiche, l’attualità culturale e politica di Guido Dorso. Non vi è dubbio, ripetiamo, che l’autonomismo e il rivoluzionarismo radicale di Dorso possano apparire non sempre congrui, così come le sue analisi storiografiche potrebbero dar adito a qualche perplessità per la estrema semplificazione. Fondamentale, e quindi in questo senso attuale, rimane l’analisi delle classi dirigenti e specificamente della classe politica che, con grande modernità, Guido Dorso aveva condotto. E può rivestire grande interesse etico-politico la proposta di impegnarsi e lottare per la “creazione” di una élite coraggiosa e vigorosa pronta ad impegnarsi con forza e determinazione nell’azione politica. “Se il Mezzogiorno, scrive Dorso in una pagina schietta e sincera, in un supremo sforzo creativo organizzerà questa minuscola élite senza paura e senza pietà, la lotta potrà essere lunga, ma l’esito non sarà dubbio, poiché tutta la storia italiana non è altro che capolavoro di piccoli nuclei che hanno sempre pensato ed agito per le folle assenti. Ma se la gioventù meridionale -questa mirabile gioventù così assetata di giustizia e di verità- spronata dalla miseria, che è diventata pungente, ed avvilita da tante sventure, non sentirà il pungolo della resurrezione e riprenderà, triste e scorata, la dolorosa via dei piccoli impieghi e della dedizione allo Stato violento ed accentratore, allora anche i pochi semi che sono nati per caso sull’arido terreno del Mezzogiorno saranno sommersi, e nuovi sistemi di compressione e di sfruttamento risorgeranno dalle ceneri ove ora sono sepolti.” (10)

Come sappiamo, il fascismo venne a troncare ogni speranza e le parole di Dorso, che sembravano una previsione ed erano un incitamento, alla luce del corso storico, possono diventare una sorta di drammatica epigrafe. Ma il punto centrale rimaneva, e non è un caso che, negli anni “dell’esilio in patria” la meditazione di Dorso si esercitò ancora e preponderatamente su queste tematiche, attraverso un’elaborazione naturalmente più matura, più pacata, forse più scientifica anche se non per questo meno appassionata. Pensiamo agli scritti pubblicati postumi, soprattutto a Classe politica e classe dirigente (11), nel quale si pone il problema della formazione, per tanti aspetti misteriosa, delle classi dirigenti e del loro rapporto con la classe politica e con i partiti, e dell’ideologia che essi creano a giustificazione di se stessi. Gli autori di riferimento del grande meridionalista sono Mosca e Pareto e, per certi aspetti, lo stesso Croce che, com’è noto, apprezzò la teoria di Mosca ed affrontò sul piano rigorosamente filosofico la questione del rapporto fra etica e politica (12)

Il saggio si chiude con una breve analisi della cosiddetta “formula politica” che è, secondo Dorso, un complesso di dottrine e di credenze, un complesso ideologico che giustifica l’esercizio del potere della classe politica. Dorso tenta di evitare la banalizzazione di questo concetto in un meccanismo deterministico che somiglierebbe ad una versione perfino semplificata della dottrina delle classi di origine marxiana. In realtà egli cerca di tratteggiare una teoria dell’ideologia politica e delle formule giuridiche connesse ad essa nella quale si fondono sia la sensibilità economicistica tipica del marxismo sia la sensibilità etico-politica dello storicismo liberale. Per cui la formula politica non appare solo come un mero strumento di potere bensì si coniuga con la capacità da parte della classe politica di interpretare e fare proprie le credenze della classe dirigente. Scrive, in conclusione: “Ma sia l’esistenza di molti, anzi forse troppi, ideologi puri nella classe politica, sia la necessità per i veri politici di caratterizzare il tipo sociale cui appartengono, dimostra che la formula politica è tutt’altro che un’ingannevole funzione, ed è invece una potente realtà intorno alla quale si organizza la storia umana. La formula politica che più a lungo ha costituito il titolo di legittimazione del potere della classe politica è stata la teocrazia. Onde la prima distinzione da introdurre nella teoria è quella fra formule teocratiche ed ateocratiche. Nelle società primitive e per lungo decorso di secoli poi si è ritenuto che i capi degli Stati fossero direttamente investiti da Dio dell’onere di governare i popoli.” (13)

Vent’anni prima, ne La rivoluzione meridionale, analizzando la funzione del Partito Popolare, della Democrazia Cristiana, delle teorie di don Sturzo, Dorso affermava che se proprio si fosse dovuta saggiare la possibilità, da parte del Partito popolare, di praticare una vera politica di libertà non reazionaria, essa si doveva provare innanzitutto sul terreno dei rapporti fra Stato e Chiesa e così comprendere se si fosse veramente abbandonato il terreno della teocrazia.

Sembra dunque che una continuità, non solo di metodo, ma anche di contenuti caratterizzi il pensiero di Dorso, dalle giovanili pagine della tesi di laurea a quelle della piena maturità.

Come oggi si debba interpretare, sul piano stroriografico, la posizione di Dorso non è questione semplice, perché è difficile, se non impossibile, collocare l’opera dorsiana nel solco di una tradizione politica chiara e precisa. D’altro canto, la necessità di costruire formule ed etichette è una necessità puramente didattica, non ha reale valore di giudizio storico. La sua fu un’opera originale come, d’altro canto, quella di Fortunato e di Croce, liberali, senz’altro, ma di così particolare caratteristiche da sembrare spesso estranei alla stessa tradizione classica del liberalismo. (14) Certamente Dorso fu un democratico liberale, che cercò di coniugare il realismo politico con l’orizzonte ideale, l’essere con il dover essere, con una propensione vorremmo dire quasi naturale a preferire il secondo termine dell’apparente dicotomia, con ciò risultando a molti suoi interpreti un punto di riferimento morale piuttosto che non politico.

Resta da riflettere, in conclusione, sul significato, agli inizi del nuovo millennio, della posizione di Dorso nei confronti della Chiesa. Come si è detto, non vi è dubbio che le posizioni in campo siano molto mutate. Parlare oggi di teocrazia, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, sembra anacronistico e non è un caso, infatti, che questo termine venga oggi riutilizzato quasi esclusivamente nei confronti del mondo islamico, del difficilissimo rapporto che lì esiste fra organizzazione politica, organizzazione sociale e fede religiosa. Le nostre democrazie liberali invocano, per quel mondo, una sorta di giurisdizionalismo, di un moderno giannonismo. È il problema che occupa le stesse élites intellettuali del mondo arabo e del mondo musulmano in generale.

Il nostro problema nei confronti della Chiesa cattolica è semmai oggi un problema teologico, puramente filosofico, che investe le ragioni intime della fede e la conseguente pratica sociale della fede stessa. Eppure la laicità di Dorso e del Mancini da lui così appassionatamente studiato non perde di attualità perché, in sostanza, appartiene a quel sentire classico, e perciò sempre attuale, che è il pensiero critico, il pensiero libero. Non solo perché, come è evidente, persistono, nei rapporti fra Stato e Chiesa tante questioni particolari che non possono essere sottovalutate soltanto perché l’atteggiamento complessivo è mutato, ma soprattutto perché si presentano, nella vita politica, nuove teocrazie, spesso travestite da regimi assolutamente laici. Il problema della giurisdizione è un problema sempre vivo perché si tratta di un caso specifico del più generale problema dell’autodeterminazione dell’individuo, della sua possibilità di vivere in uno Stato, in una comunità che ne garantisca la piena e realizzata libertà.

Ernesto Paolozzi

Bibliografia

  1. La ricerca del giovane studioso non fu certamente agevole, per l’assoluta mancanza di riferimenti e letteratura sull’argomento. Il noto giurista Francesco Scaduto, al quale Mancini chiedeva consiglio, rispondeva con una lettera del 15 novembre 1914: “Una ricerca che, se approdasse, sarebbe importantissima, riflette il lavoro preparatorio dei vari decreti Mancini 17 febbraio 1861. I documenti relativi dovrebbero essere o presso il Grande Archivio di Stato di Napoli, o nell’ Archivio del Ministero, probabilmente presso quello di Grazia e Giustizia. Ma nessuno li conosce, né sa dove esistano; anzi, per quanto è a mia conoscenza, nessuno si è mai proposto il problema dell’importanza di tali documenti, e quindi nessuno ha mai pensato neppure a cercarli.” Già prima, del resto, la figlia di Mancini, Grazia Pierantoni, interpellata sempre da Dorso, esprimeva in due lettere, del 29 aprile e del 23 maggio del 1914, la sua desolazione per non poter contribuire in modo pregnante alla elaborazione della ricerca del giovane studioso.
  2. Si confronti Gian Savino Pene Vidari, Un secolo e mezzo fa (22 gennaio 1851): la lezione torinese di Pasquale Stanislao Mancini sulla nazionalità, in “Studi piemontesi”, dicembre 2002, vol.XXXI, fasc. 2.
  3. Giovanni Spadolini, Per Pasquale Stanislao Mancini, in Pasquale Stanislao Mancini, l’uomo lo studioso il politico, Napoli, Guida editori, 1991, p.8. Il saggio di Spadolini è l’Introduzione agli Atti dell’importante convegno organizzato dall’Istituto Suor Orsola Benincasa ad Ariano Irpino dall’11 al 13 novembre del 1988. L’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa ha avuto cura di pubblicare nel 1983 la ristampa anastatica dell’edizione torinese del 1851 della “prelezione” del Mancini alla quale si riferisce Giovanni Spadolini. È da avvertire che il giudizio di Ruffini sul Mancini, pur essendo sostanzialmente positivo, anzi decisamente elogiativo, contiene qualche importante nota critica, soprattutto in ordine all’aspetto dottrinale, sistematico del pensiero di Mancini. Si confronti Francesco Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa, Bologna, 1974. In generale, com’è ovvio, è fondamentale il testo di Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1963. Per un’interpretazione complessiva del pensiero di Mancini è fondamentale il citato volume che contiene gli atti del convegno di Ariano del 1988. In particolare è utile segnalare la sezione dedicata alla politica ecclesiastica, che contiene importanti saggi di Gabriele De Rosa, Cesare Mirabelli e Mario Tedeschi.
  4. F. S. Festa, Dorso pensatore politico, edizioni del Centro Dorso, Avellino, 1994, p. 23. Si confronti, per una lettura complessiva della personalità e l’opera di Guido Dorso, anche il volume di Santi Fedele, Guido Dorso. Biografia politica, Gangemi, Reggio Calabria, 1986.
  5. Guido Dorso, La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino, 1972, p.46. Recentemente è stata proposta da Mephite la ristampa anastatica della prima edizione gobettiana del volume con un’introduzione di Francesco Saverio Festa.
  6. Ibidem, p.8
  7. Ibidem, p.207
  8. Ibidem, p. 210
  9. Guido Macera, Eresia meridionale, Napoli, 1965, p. 278. D’altro canto, caratteristiche simili della politica meridionale coglieva già dal vivo Francesco De Sanctis che si può considerare, da questo punto di vista, il maestro di tutti i meridionalisti consapevoli, nel suo Un viaggio elettorale, ripubblicato da Avagliano, Cava dei Tirreni, nel 2003 in edizione critica a cura di Toni Iermano.
  10. Guido Dorso, La rivoluzione…, cit., p36
  11. In Guido Dorso, Dittatura classe politica e classe dirigente, Laterza, Bari, 1986
  12. Oltre alle classiche Filosofia della pratica, Etica e politica, è importante riferirsi a La storia come pensiero e come azione, del 1938, opera decisiva per comprendere il rapporto fra teoria e prassi, etica e politica, essere e dover essere.
  13. Guido Dorso, Dittatura…, cit., p.175
  14. Si confronti E. Paolozzi, Il liberalismo come metodo, Kairos, Napoli, 2016 e Benedetto Croce. Logica del reale e il dovere della libertà, Aracne, Roma, 2016.

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