L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni

Nel 2025 Napoli, capitale storica del Mezzogiorno, spegnerà 2500 candeline. Nata come Parthenope e poi Neapolis” città nuova”, nel 475 a.C. per opera degli antichi greci, la città è stata fin dalle origini un importante porto del Mediterraneo e crocevia di culture e commerci con Sanniti, Romani, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e Borbone, ciascuno dei quali ha lasciato un’impronta indelebile sul suo patrimonio culturale e architettonico. Un lungo viaggio fra mito e storia, certificato da una lingua dove ogni popolo ha lasciato la sua impronta di identità. Che cosa è Napoli? quante identità, quante facce? Il libro di Antonio Corvino, “L’altra faccia di Partenope” edizioni Rubbettino, cerca di leggere l’anima di questa città con   un viaggio tra il reale e l’immaginifico nei luoghi della “Napoletanità” tra grovigli umani e superfetazioni mai banali e sempre intrise di mistero. Il volto di Napoli sfugge, nascosto sempre da una maschera. Pubblichiamo la recensione del libro curata dal professore Giacomo Fronzi. (N.d.R).

 

A cura di Giacomo Fronzi

«Se la lettura di questo mio viaggio gioverà a togliere in minima parte quella smania, pur troppo ancora esistente in molti Italiani, di viaggiar nell’estero, per seguir la moda, prima di aver vista la propria patria, per vedere la quale si corre da ogni parte, io mi reputerò ben felice e pago delle mie deboli fatiche». Non è facile immaginare che già nel 1863, anno in cui Antonino Bertolotti dà alle stampe il suo Peregrinazioni in Toscana, serpeggiasse in Italia la smania di «viaggiar nell’estero». A questa moda si è sottratto Antonio Corvino, pugliese di origini e napoletano di formazione, che condensa in sé la raffinatezza del saggista e le competenze dell’economista. La sua cultura classica, a un certo punto, ha incrociato una sincera, ma profonda, vocazione per il viaggio. È come se da questa combinazione fosse nato un nuovo Corvino, il camminatore o, per dirla con Machado, “el caminante”, il cui cammino coincide con l’andare. Questo del camminatore o del viandante è una sorta di “topos” che, soprattutto in età romantica, ha trovato espressioni notevolissime in letteratura, in pittura e in musica (si pensi al Wandrers Nachtlied di Johann Wolfgang von Goethe, al Der Wanderer über dem Nebelmeer di Caspar Friedrich o alla Wanderer-Fantasie di Franz Schubert). Tuttavia, nel caso di Corvino l’esplorazione del mondo esteriore, con il suo corrispondente e inevitabile viaggio in quello interiore, non è un’esperienza solitaria ma si presenta come un’esperienza di condivisione che si sviluppa su diversi piani: umano e relazionale, ambientale, storico, letterario, artistico.

Dopo il racconto di Cammini a Sud (Giannini 2023), Corvino esce ora con L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni (Rubbettino), un libro scritto con passione e con uno stile che si muove tra eleganza poetica e piglio descrittivo schietto e deciso. Questo lavoro che si presenta come un “romanzo di viaggio” e già questa definizione appare interessante, poiché propone una narrazione legata, sì, a itinerari battuti, a sentieri conclusi e interrotti, ma anche all’immaginazione che quegli itinerari e quei sentieri hanno scatenato nell’Autore. Non c’è finzione, ma descrizione minuziosa e appassionata. Lo sguardo di Corvino attraversa ciò che le gambe non possono solcare e si sofferma proprio lì dove tracce misteriose sembrano voler continuare a sfuggire a occhi indiscreti o poco attrezzati. Da Pietrarsa a Oplontis, dal Vesuvio a Ercolano, da Afragola a Napoli, Corvino, dopo la clausura pandemica, viaggia nelle terre della sua formazione, con quell’entusiasmo tipico di chi cerca qualcosa di cui sente la presenza, ma che perennemente gli sfugge: «il volto invisibile di Partenope». Ecco che, mosso da tale ambizioso proposito, l’Autore lascia la casa che attende i suoi ritorni per dirigersi verso il “Crater sinus”, «dove il Tirreno disegna coste amiche o inaccessibili, crea insenature e scava fiordi, disegna isole e culla gli eroi del mito» (p. 5).

Per chi volesse scoprire l’identità più intima di quei luoghi e, soprattutto, di Napoli, queste pagine saranno la guida perfetta e il loro Autore un Virgilio che accompagnerà con cura e attenzione chi intende davvero inabissarsi nella trama nascosta delle terre della “napoletanità”, con la loro bellezza e la loro ambiguità, la loro potenza attrattiva e le loro respingenti ferite. Nel suo viaggiare, Corvino dichiara infatti di aver «toccato, come in un sogno apocalittico, il cielo e la terra, il divino e l’umano, l’abiezione e il riscatto, la ricchezza e la miseria, la fuga e il desiderio, la notte e il giorno, la folla e la solitudine, la meraviglia e il degrado» (p. 6).

A Napoli, poi, éros e thánatos danzano pericolosamente insieme, in un alterno gioco di nascita, dissoluzione e rinascita: «Napoli è come l’araba fenice, risorge dalle sue ceneri, costruisce su ciò che è stato e lo fa rivivere, accumulando storia e accatastando bellezza per sé e per il mondo; rinasce come Anteo, ogni volta che sembra essere stata vinta, traendo, come quello, inesauribili energie dalla terra e dal mare che la nutrono» (p. 128). Attraversare Napoli, città «dall’identità nascosta e misteriosa» (p. 17), perdersi nel suo melanconico sorriso, nella sua elettrizzante vitalità e nelle sue sanguinanti lacerazioni, significa – sembra dirci l’Autore – fare i conti con il romanzo dell’esistenza, con le sue improvvise cadute e le sue inattese fioriture. Un po’ come accade nel rione Sanità, «diventato negli ultimi secoli una specie di enclave invisibile, nascosta, abbandonata anch’essa alla miseria e al malaffare» (p. 164), ma quasi inaspettatamente in grado di volgere lo sguardo verso l’alto, costruendo da sé il proprio riscatto, magari grazie alla musica e a quell’orchestra di ragazzi che, da circa dieci anni, è attiva proprio tra quei vicoli. Un reticolo di strade e di umanità varie, questo, che, nelle sue contraddizioni, disegna anche un altro luogo, descritto in modo molto efficace dall’Autore, come San Giovanni a Teduccio, un “Bronx” infernale «nascosto nei falansteri mutilati dietro al corso ed alla chiesa» (p. 123) omonima. Un Bronx reso particolarmente famoso dalla presenza di due murales realizzati dall’artista napoletano, di origini olandesi, Jorit Agoch: uno rappresenta il «dios umano» Diego Armando Maradona e l’altro, invece, Ernesto “Che” Guevara. Questi due interventi di arte pubblica, come sottolinea acutamente l’Autore, danno il senso di quanto possa essere viva, proprio nei contesti più difficili, la volontà di restituire, attraverso la bellezza, dignità, senso e prospettiva a esistenze altrimenti destinate a un futuro oscuro e malsano. E di questo l’arte di Jorit si fa carico, orientata com’è a «sorprendere, restituire decoro e bellezza agli spazi urbani in degrado, estroflettere la bellezza fuori dai musei e dalle gallerie e portarla direttamente tra la gente connotandola anche di contenuti etici e morali laddove si trattava di rompere il silenzio che mutilava gli ultimi per ridare loro dignità» (p. 125).

Attraversare il territorio partenopeo, in definitiva, si configura come un’esperienza sublime, intesa propriamente come un’esperienza del limite che ci fa oscillare costantemente tra un “al di qua” e un “al di là” di esso. In questa incontenibile doppiezza, in tale atmosfera così umana e così divina, così sacra e così profana, Corvino cerca quel volto che costantemente si sottrae, quella presenza impalpabile che si offre e si ritrae, proprio come le onde di quell’angolo di paradiso, dalla poesia impareggiabile, che è il golfo di Napoli.

Giacomo Fronzi