Guardia Sanframondi, dove l’arte é di casa e promette di salvare il mondo

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è il Comune di Guardia Sanframondi in Campania in provincia di Benevento di circa 4500 abitanti, posto a 428 metri s.l.m. Un borgo collinare facente parte della comunità montana del Titerno e che si affaccia sulla valle telesina, circondato da oliveti e vigneti da cui deriva la sua rinomata tradizione vitivinicola. Le sue origini risalirebbero ad epoca romana o sannita secondo alcuni storici, longobarda per altri. Si mantiene vivo e partecipato anche l’antichissimo rito penitenziale in onore dell’Assunta: il 15 agosto, ogni sette anni, una lunga processione di Battenti in saio bianco percorre le strade cittadine flagellandosi il petto a sangue. (N.d.R)

 

Domenica, 15 settembre 2024, alle 10 di mattina Ernesto venne a prendermi da “La Vecchia Torre” tra Benevento e San Giorgio del Sannio, per condurmi a Guardia Sanframondi.

Guardia Sanframondi é un piccolo paese ricco di storia, di chiese, di tradizioni religiose, di arte e di artisti. Ha anche un castello che i più fanno risalire all’era normanna, tra il X e l’XI secolo ma che, secondo altri, potrebbe risalire addirittura all’epoca longobarda, assai più antica. D’altronde i Longobardi si insediarono a Benevento all’indomani della caduta di Roma e conquistarono gran parte dei territori del mezzogiorno continentale e Rocca Sanframondi occupava una posizione strategica niente male.

Lambiva il Massiccio del Matese.

Il colle su cui era situata consentiva di controllare le vie che lo attraversavano e che scendevano a valle. San Lupo era praticamente attaccato e da lì si potevan raggiungere le cime del massiccio e guadagnare il Molise in un batter d’occhio che per quei tempi doveva essere pur sempre rapido nonostante la lentezza degli spostamenti a piedi, a cavallo o a dorso d’asino e di mulo.

A luglio, in uno dei saloni superstiti e restaurati del castello, era stata allestita una mostra d’arte che sarebbe rimasta aperta sino al 15 settembre, appunto.

Un gruppo di artisti, scultori e pittori, di Sanframondi avevano messo su una rassegna tutta giocata su un messaggio concettuale molto forte legato alla crisi del pianeta ed alla deriva dell’umanità senza tuttavia rinunciare alla pregnanza dei contenuti estetici proposti sui crinali dell’avanguardia secondo schemi personali fuori da ogni omologazione.

Ernesto mi conduceva a vedere la mostra e me ne anticipava in qualche modo le chiavi di lettura forse preoccupato che io potessi prendere sottogamba un evento artistico che veniva proposto lontano dai palcoscenici metropolitani, o forse, al contrario, per rivendicarne il primato proprio in considerazione della mia grande attenzione alle terre di mezzo.

Egli era l’anima del gruppo pur essendo schivo ed incline ad un costante esercizio di  modestia. Le sue opere parlavano per lui. Ed anche i suoi oltre cinquant’anni di attività che lo avevano portato spesso a entrare in rotta di collisione con critici d’arte blasonati senza ovviamente mai retrocedere di un passo dal suo percorso. Musei e collezioni private annoveravano sue opere che celebravano anche spazi pubblici ed istituzionali.

Una sala del palazzo comunale di Sanframondi ospitava una sua collezione permanente.

La conoscenza con Ernesto era recente. Essa era nata intorno al mio primo romanzo di viaggio “Cammini a Sud” e si era consolidata intorno ad una comune visione del mondo che secondo me ed anche secondo lui andava rimesso in piedi per correggerne l’aberrante andamento pericolosamente appiattito sui valori consumistici che stavano compromettendo da un lato l’equilibrio del pianeta e dall’altro  la stessa tenuta non solo  etica e morale ma anche sociale e civile oltre che culturale dell’umanità prigioniera di un caravanserraglio sempre più violento.

Ancor prima di conoscerlo avevo incrociato una sua opera. Stavo percorrendo a piedi la valle del Calore diretto verso Altilia ed i monti del Matese. Avevamo solo sfiorato Benevento rimanendo ai margini della città. Nella periferia nord, immerso in un bosco di ginestre, mi apparve improvviso un monumentale, ardito sovrapporsi di massicci parallelepipedi di ferro che si inerpicavano verso il cielo. Al di sopra una enorme statua. La figura di un uomo a sua volta attraversato da una struttura di gabbie che poggiavano su due piedi poderosi e sostenevano una faccia da profeta burbero in cui l’ascesi mistica veniva sopraffatta dalla sofferenza estrema o dall’indignazione; forse da entrambe. Un manto o un velo o addirittura una vela gonfiata dal vento sembrava in procinto di sopraffarlo alle sue spalle imprimendo una forte spinta ascensionale all’intera figura.

Non avevo mai visto nulla di simile. Mi fermai confuso, sorpreso e meravigliato. Era il monumento a Padre Pio realizzato appunto da Ernesto sulla rotonda dedicata ai Sanniti Pentri con il supporto e collaborazione di un gruppo di architetti che avevano disegnato la struttura su cui la statua poggiava.

Un Padre Pio fuori dagli schemi, finalmente, in procinto di alzarsi in volo, sospinto dalle sue sofferenze racchiuse in quel manto/velo/vela che avrei scoperto essere il sudario di Cristo pronto a ghermirlo mentre egli cercava di sottrarsi alla prigionia della chiesa, dei fedeli, degli uomini che lo costringevano alla santità taumaturgica. Un monumento costruito su enormi parallelepipedi metallici e intriso di zavorre cubiste nell’anima e di spinte  futuriste nel volto aggredito dal manto/velo/vela che lo incalzava. Un Padre Pio padrone dei suoi sentimenti e pronto ad urlare, bestemmiare magari contro l’insana voglia del mondo di cercare scorciatoie il più delle volte malsane, spesso violente.  Un Padre Pio verso il quale avevo nutrito istintive riserve non per lui ma per il fenoneno mediatico che lo aveva imprigionato, si mostrava, per una volta, libero di essere sé stesso, conscio e consapevole delle derive di un mondo che non voleva saperne di stare o rimettersi in piedi. Rimasi così per un buon quarto d’ora fermo a guardare quell’ammasso pesante di ferro che sosteneva quella strana statua di bronzo pronta a spiccare il volo laddove tutti cercavano di tenerlo ben saldamente incatenato alla terra… per i loro interessi, la speranza di un miracolo o più di qualche affare… Istintivamente ringraziai l’artista che non conoscevo e che mi aveva messo davanti un uomo , magari un santo, ma certo non una figura rassicurante, banale e appiattita sul conformismo imperante.

Adesso Ernesto mentre guida mi racconta il suo Padre Pio che mi rendo conto somigli molto al mio. Quello che ho intravisto a Pietrelcina nella casa di pietra in cui la famiglia Forgione viveva tra stenti e fatica, nella chiesetta di campagna fuori paese in cui si ritirava in cerca di solitudine, nel podere in cui placava con la sua mansuetudine la rabbia del padre alla disperata ricerca di  una vena d’acqua per far lievitare il suo lavoro…beh c’è di che consolarsi in un  mondo che va a carte quarantotto inseguendo allegramente la propria rovina.

Intanto siamo arrivati a San Lupo. Dalla valle del Calore ci siamo portati alle pendici del massiccio del Matese ed abbiamo preso a salire lungo i primi pendii ed i colli che lo annunciano. San Lupo appare sulla linea dell’orizzonte con l’umile campanile dalla cuspide maiolicata simile ad una cipolla rivolta verso il cielo e sormontata da una croce in ferro. Passiamo accanto alla locanda dal rosso portone già quartier generale di Cafiero e Malatesta, lì giunti, con il resto di quella che sarebbe passata nelle cronache giudiziarie dell’epoca come la Banda del Matese, il 3 aprile del 1877 per portare, ahimè senza esito, la rivoluzione degli anarchici internazionalisti.

Ernesto prosegue in direzione del monte, fuori dall’abitato. Stiamo andando a casa sua. Questa si staglia a metà costa. Dietro incombe il bosco, lussureggiante, che sale verso l’alto. Davanti, un balcone che attraversa l’intero fronte dell’abitazione. É profondo e  chiuso da vetrate che lasciano godere  per intero la vista della valle ricca di oliveti, vigneti e frutteti, mentre tutto intorno si dispongono le cime del Taburno e quelle del Matese. Un paesaggio davvero da incanto. La casa di Ernesto è isolata e sembra disposta come un palco sul proscenio della natura. É una sorta di museo. Tutta realizzata in pietra segue lo sviluppo del pendio con i suoi due piani armoniosamente dialoganti con esso attraverso altrettante terrazze. Al piano terra il laboratorio. A metà fucina, e a metà antro magico popolato da una selva di figure, opere, gruppi, statue, dipinti, incisioni, bozzetti in bronzo ed in pietra, in legno e stoffa, celebranti la dimensione estetica dell’arte scultoria e pittorica e denuncianti la deriva obnubilante di un’umanità  a rischio smarrimento.

Tira fuori un duplice faldone contenente la rassegna stampa del suo dissacrante monumento a Padre Pio.

Dappertutto cataloghi, manifesti e locandine di mostre e rassegne… 50 anni ed oltre di arte. Cinquant’anni di scultura, cinquant’anni di pittura, incisioni, lavori preparatori….un percorso rutilante. Opere avvolte in veli a proteggerle dalla polvere e da sguardi indiscreti come si addice al carattere di un artista geloso del suo lavoro che tuttavia regala all’ammirazione di chi ad esso si avvicina con cuore puro ed amore senza condizioni. É una continua peregrinazione in una sorta di labirinto infinito  che si attorciglia su se stesso mentre lascia intravedere la storia degli uomini………

Mi presenta la sua famiglia.

Pasqualina sua moglie, due occhi azzurri da innocente e gentile ragazza, nonostante le rughe del viso e gli acciacchi del corpo.

Michelangelo, il secondogenito, dolce e mansueto mi avvolge con il suo sguardo generoso e desideroso di attenzione.

Raffaele, il primogenito cultore dei destini compromessi dell’ambiente e tramite mediatico del padre nei miei confronti, è dalla fidanzata.

Mi invitano a pranzo.

Accetto con gioia.

In questa casa si respira felicità avvolta nella bellezza, nell’arte, nella natura…

E partiamo per Guardia Sanframondi alla scoperta del paese che mi incuriosisce, del borgo che mi intriga, del Castello poderoso ponte tra la storia del mondo e quella della gente, della rassegna d’arte in esso raccolta ed in attesa di curiosi e visitatori.

É di appena tre/quattro chilometri la distanza tra San Lupo e Guardia Sanframondi. Il dislivello è minimo.

Siamo tra i quattrocento ed i cinquecento metri di altitudine.

Una piccola strada, si direbbe deserta corre tra i due paesi verso l’altro versante, tra vigneti, oliveti e campagne coltivate ad ortaggi dove ancora resistono le alte impalcature  di canna su cui si arrampicano i fagioli di San Lupo, specialità unica e pregiata già apprezzata da re e regine sin dal tempo dei Borbone.

Più su, seguono i boschi. 

Ed ecco Guardia Sanframondi.

Entriamo in un corso ampio, le case basse sui due lati della strada disposte in bell’ordine, diresti orgogliose. Non mi sembrano arrivare dal passato. “Infatti sono recenti, anni 70/80 del 1900” mi dice Ernesto “il paese fu ricostruito intorno al castello  dopo il terremoto deI 1688, e via via, soprattutto nei tempi più  recenti, ha rinnovato il suo patrimonio edilizio. La parte più antica è sopra, intorno al castello, ormai quasi del tutto abbandonata.”

É lì che Ernesto é nato ed ha vissuto bambino ed anche da giovane, sino agli studi in accademia e il successivo girovagare per la penisola, inanellando cattedre ed insegnamenti prima di approdare nuovamente nella sua terra, questa volta sul colle di San Lupo. 

Ed è nel borgo che il grande cinema italiano ha trovato negli anni ‘50 ed anche in anni più recenti il suo set ideale oltre che la cornice di manifestazioni e festival che crebbero e si affermarono prima di esaurire la loro spinta creativa.

Attraversiamo l’abitato. É ricco di Chiese. Tra le altre La chiesa dedicata a San Sebastiano e quella di San Rocco il cui busto ad altezza naturale in argento è stato rifatto da Ernesto in sostituzione delll’originale risalente al 1700 e trafugato insieme a tutti gli argenti del tesoro di Guardia, mai più ritrovato.

Costeggiamo la chiesa dell’Assunta. Stile barocco, facciata umile e interno grandioso. Da qui prende il via il sedici di agosto ad intervalli di sette anni l’una dall’altra, la processione dei battenti.

É famosa nel mondo intero  la processione dei battenti. Inserita dalla regione Campania negli eventi da non perdere. Per essa arrivano da tutta Italia e qualcuno anche dall’estero, mi racconta la mia guida e non solo per assistere ma addirittura per partecipare.

Per sette giorni si ripete il rito.

I penitenti vestiti di bianco, con saio e cappuccio, ordinati per i quattto rioni di Guardia, percorrono il paese, proponendo i quadri viventi dei misteri e quindi flagellandosi il petto, scoperto dalla parte del cuore, con un cilicio pieno di aculei o con una spugna di sughero irta di aghi imbevuti nel vino.

A Guardia Sanframondi raccontano che il rito è nato intorno all’anno mille allorquando la statua lignea della Vergine, miracolosamente apparsa tra i ruderi in località Limata, si fece leggera, da pesantissima che era, solo dopo la flagellazione degli astanti. Fu questo atto di contrizione e penitenza, nella convinzione dei Sanframondesi, che rese possibili il trasporto della statua sino alla chiesa ad essa dedicata.

Ernesto racconta tutto con puntigliosa meticolosità ma anche con evidente distacco se non proprio disapprovazione.

Egli é un appassionato difensore dell’ambiente. Si batte contro lo scempio delle pale eoliche che deturpano i monti e le valli, spaventano la piccola fauna residenziale, creano confusione in quella migratoria  e distruggono la biodiversità del territorio. Non serve a nulla battersi il petto ogni sette anni se poi si assiste inerti alla distruzione della natura. Non lo dice ma lo lascia capire. Almeno io ho l’impressione che lo stia pensando ed io anche lo penso. Inoltre, Ernesto ha nel suo passato una lunga e convinta militanza comunista, al pari di tanti ragazzi a quell’epoca. Ed i comunisti non guardavano di buon occhio riti e pratiche che sconfinavano nella superstizione. Eppure anch’egli oggi si interroga su una pratica che sembra tornare ad essere espressione di un’era alla deriva oltre che di un desidero di espiazione forse maturato per fermarla, quella deriva. Non è possibile che la gente si percuota ferocemente solo per tener viva una tradizione e richiamare curiosi e turisti. Ci deve essere di più. Ed io credo che abbia ragione… Questo mondo va avanti, da troppo tempo, privo di ogni fede e di ogni valore. Il desiderio di espiazione può essere dunque un segnale di resipiscenza. La prova di un disagio che non ha ancora trovato la strada giusta per manifestarsi per esempio rifiutando le guerre, le violenze, la distruzione della natura e si rifugia nei riti antichi che rimandano ad un rapporto magico con la divinità a cui chiedono come un tempo, fideisticamente, protezione e rassicurazione.

Continuiamo a salire intanto verso il vecchio borgo. La presenza umana si dirada sino a scomparire man mano che ci inoltriamo. Procediamo a piedi. Le strade sono strette, ovunque vi sono impalcature a tenere in sicurezza abitazioni e costruzioni malferme. Eppure, ha una bellezza struggente il borgo antico.  Non fu per caso che registi e attori con troupe al completo vi si fermarono ripetutamente nella stagione del realismo cinematografico.

Lo centellino mentre saliamo e lo osservo tutto intero dal grande spazio un tempo piazza d’armi racchiusa in quel che resta delle mura poderose del castello. I tetti rossi delle case  in rovina o abbandonate si accalcano come pulcini intorno alla  chioccia lungo le stradine che lo avvolgono. Per il resto il castello domina il territorio superbamente a cominciare dal nuovo paese disposto intorno al corso che tutto lo attraversa intersecando le vie laterali.

Defilata, in un angolo della piazza d’armi da cui si domina il borgo sottostante, una grande scultura che è anche installazione.

“Spada di Damocle” recita il titolo.

É una sorta di manifesto estetico e concettuale della mostra che è allestita nel grande salone che si apre  in fondo al cortile.

Un grande parallelepipedo in legno di forma quadrata e dipinto con pennellate, colori, toni e gesti misurati di sapore espressionista, fa pendant con il cielo azzurro striato da nuvole bianche e illuminato da una luce superba come solo la luce mediterranea sa essere. Su di essa la silhouette dell’italia disegnata con i confini regionali scavati come altrettanti invalicabili burroni da bianche pietre calcaree.  Sembra immobile e rassegnata ad un destino infelice a rischio entropia.

Una struttura essenziale composta da quattro tondi assi anch’essi di legno, convergenti in cima come una piramide acuminata, sostengono una spada che incombe minacciosa con le sue oscillazioni impresse dal vento.

L’installazione asseconda la vista del paese mentre la spada affilata si dispone perfettamente lungo la linea del campanile che osserva con la sua cuspide a cipolla sormontata dalla croce mentre la scultura tutta intera punta il cielo in segno di sfida o forse in un gesto di preghiera.

Sono quattro gli artisti che han firmato l’opera manifesto della rassegna il cui significato non ha bisogno di spiegazioni tanto é evidente e soprattutto attuale.

Giacobbe Falato, Giovanni Lombardi, Carmine Carlo Maffei ed Ernesto Pengue.

Si tratta degli artisti che han dato vita con le loro opere al nucleo centrale della rassegna che ha visto la partecipazione di altri sette tra scultori e pittori campani che ad essa han conferito più vasti e  variegati orizzonti.

In fondo una scala metallica conduce negli spazi della mostra. Dall’estremo limite del ballatoio in cima si diparte una forca da cui pende impiccata l’umanità nascosta dentro ad un manichino che dondola con l’osso del collo spezzato. “La sentenza” recita una scritta lungo l’asse orizzontale a cui è  appeso il cappio con il manichino. Sull’altra faccia vengono  elencati i protagonisti che quella sentenza han pronunciato. A terra come tante gocce di sangue giacciono virtù e valori, cultura, verità e conoscenza.

Non manca di provocazione quest’opera, anch’essa di Ernesto, che urla la disperazione del mondo residuo…

All’ingresso gli artisti che hanno ideato la rassegna, tutti nativi di Guardia Sanframondi, si intrattengono con me.

Insieme ragioniamo di arte e di sopravvivenza del mondo.

Vi è un elemento che tutti li accomuna, pur nella  differenza del loro personale  linguaggio artistico ed espressivo. É la preoccupazione di riempire di senso le rispettive creazioni che affermano certo una grammatica individuale sopraffina al limite della sofisticazione ma non rinunciano ad uno sguardo condiviso, malinconico o giocoso, preoccupato o speranzoso,  ma comunque proteso alla ricerca di una umanità  drammaticamente impegnata a ritrovarsi finalmente o a perdersi definitivamente. É un messaggio forte quello che parte da questa rassegna che, accanto ai quattro promotori, ha visto la partecipazione di altri sette artisti anch’essi impegnati a mixare il linguaggio dell’arte con  il destino dell’uomo.

“Se vuoi conoscere un luogo, parti dalla sua cultura” mi dice  Chiara, la giovane assessora alla cultura di Guardia Sanframondi che intanto ci ha raggiunti.

Il sindaco e lei stessa sono stati a festeggiare una signora centenaria.

Bella e addirittura commovente questa intima partecipazione comunitaria che solo nei piccoli borghi é sopravvissuta.  Come non ricordare la longevità delle genti mediterranee che in essi, lontano dal chiasso convulso delle metropoli nostrane e delle megalopoli mondiali, si afferma tuttora prepotentemente quanto felicemente. 

É qui, nelle terre di mezzo, che l’Umanità è ancora capace di  nutrirsi della lentezza del pensiero meridiano e di alimentarsi della ricchezza della biodiversità della natura che in esse si manifesta con i tempi delle stagioni e nel rispetto del senso del limite e della misura lasciatoci in eredità dalla civiltà greca e dagli avi che l’hanno custodita. Terre dei centenari le denominavano i naviganti, le sponde della Grecia e della Magna Graecia.

Sono grato alla giovane assessora per aver voluto raggiungerci sulla piazza d’armi del castello, nel cuore antico del paese dove un gruppo di ragazzi si fa carico di custodire spazi preziosi, compreso il salone che ospita le ventidue pregevoli opere in rassegna. É anche questo un segno che dà forza al messaggio dell’arte.

Ferma al vertice del bivio che si biforca davanti all’umanità, essa mostra da una parte la facile via che conduce alla definitiva decadenza sulle orme del consumismo, della speculazione, della violenza prevaricatrice, dall’altra l’irto sentiero verso la consapevolezza di sé in un rinnovato rapporto simbiotico con l’Universo.

Ha ragione Chiara. É dalla cultura che bisogna ripartire. L’arte è lì pronta a indicare il difficile ma necessario percorso con il suo linguaggio. Non resta che sperare che il mondo lo sappia cogliere.

E in cuor mio mi auguro che la stessa Guardia Sanframondi riprenda con coraggio la tradizione di un palcoscenico riservato alle espressioni, anche qui d’avanguardia, del cinema italiano che ha un maledetto bisogno di ritrovare autenticità e capacità di interpretare la commedia umana ed i drammi in cui essa si dibatte. Ed è proprio nelle terre di mezzo, troppo spesso ferite dall’urlo del pianeta  e disseccate dalla partenza dei suoi ragazzi, che, a mio avviso, vi sono le condizioni per dare consistenza ad un simile progetto. Allo stesso modo in cui l’intera nazione potrà in esse ritrovare lo slancio per la sua rinascita.

E mentre dall’antico finestro, che nel salone dell’esposizione incornicia il paesaggio esterno, contemplo per un attimo i monti che proteggono il vecchio borgo di Guardia Sanframondi dissestato eppure bellissimo, mi ripeto sempre più convinto che spetta alle terre di mezzo il compito epocale di estrarre la memoria custodita negli sguardi dei sopravvissuti e lasciata sedimentare per millenni tra le pieghe della sua cultura, dei suoi riti e delle sue tradizioni. Per salvarci, in fine.  

 

Antonio Corvino