Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. La rivista ha già ospitato altri report letterari di Corvino per offrire ai propri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è il territorio di Montefusco, un comune della Campania di circa 1200 abitanti in provincia di Avellino, dove Antonio Corvino ha presentato recentemente nel seicentesco Palazzo Giordano il suo ultimo libro “Cammini a Sud” – con prefazione di Fulvia Ambrosino e postfazione di Francesco Saverio Coppola. Montefusco, dal XIII secolo al XIX secolo è stata capitale del Principato Ultra del Regno di Napoli e poi delle due Sicilie, linea di confine con lo Stato pontificio. Nel 1806, nel periodo murattiano, le sue funzioni furono trasferite ad Avellino, avviando lentamente l’importante centro verso un declino demografico ed economico. (N.d.R.)
Montefusco?
É rimasto il borgo, incastonato in cima al colle, come un antico, prezioso gioiello. Tutto intorno si distende la valle e più in là le fanno corona il monte Taburno, i monti del Matese e quelli dell’Irpinia. Da qui lo sguardo spazia libero e senza ostacoli sino alle Terre Daune nelle Puglie. A nord, San Giorgio del Sannio, un tempo San Giorgio della Montagna, a marcare la sua appartenenza alla Montagna di Montefusco, allorquando Montefusco era la capitale del Principato Ultra contrapposto al Principato Citra che si allungava lungo le coste intorno a Salerno.
Appena più in là vi sono Calvi, San Lazzaro e numerosi altri centri, mentre più lontano si colloca Apice, Apice nuova e Apice vecchia. In direzione sud-est, arrampicato su un poggio più basso, Montemiletto e a sud, sul pendio della montagna spaccata che annuncia l’Irpinia più aspra, Montevergine. In quella direzione si trova anche Tufo, patria del vitigno Greco di Tufo che ha trovato in questo territorio le condizioni giuste per affermarsi come un gran vitigno dai cui grappoli nasce un vino altrettanto pregiato. Verso nord-ovest con il cielo sereno é possibile intravedere i Monti Dauni presidiati da Rocchetta Sant’Antonio, Sant’Agata di Puglia e Candela mentre Zungoli annuncia le ultime propaggini dell’Irpinia in quella direzione.
Montefusco, dall’alto della sua montagna, domina l’intero territorio circostante. In realtà più che di una montagna si tratta di una sorta di torrione naturale che si innalza per oltre settecento metri. E quel torrione che la gente, ma anche la nomenclatura ufficiale, prese a denominare montagna, fu la fortuna di Montefusco. Una fortuna antica. I Longobardi e quindi i Normanni e poi gli Svevi ne consacrarono l’importanza. Federico ne fece una sua residenza e Manfredi qui preparò la sfortunata battaglia di Benevento. Anche gli Angiò ed infine i Borbone ne confermarono ruolo ed importanza nel Regno di Napoli ed in quello delle Due Sicilie.
Guarnigioni militari per il controllo del principato e magistrati per la somministrazione della giustizia ebbero per molti secoli qui le loro sedi; schiere di avvocati e giureconsulti vi approdarono e nobili ed aristocratici si insediarono costruendo i loro palazzi. Il Papato ne fece un suo avamposto e a partire dall’XI secolo si susseguirono le costruzioni di chiese e conventi. La Chiesa di San Giovanni del Vaglio del XII secolo, che custodiva la sacra spina strappata dalla corona di nostro Signore, venne elevata alla dignità di Cappella Palatina. Un abate con autorità Vescovile fu investito del compito di presiedere ai riti ed alla giurisdizione ecclesiastica rispondendo direttamente al Papa.
San Francesco nel suo pellegrinaggio di pace verso la Terra Santa si fermò da queste parti e vi fondò un convento e nel tempo altri conventi e chiese popolarono la nobile città ed il territorio circostante di Montefusco. Appena al di qua della cinta muraria, oltre la porta detta delle Colonne, la piccola chiesa romanica di San Bartolomeo presidiava l’ingresso nel borgo sul versante sud. L’oratorio di San Giacomo e l’annesso convento custodivano a loro volta il cuore stesso della città. Palazzo Ruggero conserva, nel giardino pensile, da cui si gode una superba vista verso la Daunia e l’Irpinia, un prezioso trono maiolicato arricchito dell’effigie della corona regale.
Dall’altro lato in direzione ovest il patrizio palazzo Giordano si sporge, dal canto suo, verso il Taburno ed i monti del Matese. Insomma davvero Montefusco gode di una posizione privilegiata. Le sue stradine e le sue piazze, lastricate di una chiara e lucente pietra, esaltano la luce che la investe da tutti i punti cardinali mentre la pioggia la trasforma in diamante ricco di baluginanti bagliori. In piazza il Castello, trasformato a seguito degli eventi rivoluzionari della Repubblica Partenopea del 1799 in carcere duro per patrioti ed oppositori, ricorda i travagli del Sud che si intersecarono, e tuttora si intersecano, con la storia nazionale oltre che con quella d’Europa.
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Sono giunto a Montefusco nel primo pomeriggio di sabato 27 aprile 2024. Enzo mi ha accompagnato avendomi prelevato da Benevento ed in compagnia di Errico, dopo aver preso possesso del mio alloggio in un piccolo, lindo ed intimo appartamento a due passi dal Castello oggi sede del comune, sono andato in giro per il borgo. Avevo desiderio di rivedere i luoghi già visitati in occasione di un mio cammino di qualche anno prima che mi aveva condotto da queste parti. Vi ero arrivato con i miei compagni, Jacque e Waldemaro, pseudonimi che stavano, nel mio raccontare in “Cammini a Sud” per i nomi di Gianni e Cleto, in piena canicola, in un pomeriggio di luglio con il sole che dardeggiava come non mai. In piazza approdammo al bar dove la gentile giovane proprietaria ci diede le prime informazioni insieme ad un benedetto refrigerio.
Adesso è lei che mi riconosce. É Arianna e ci saluta dalla sede della Proloco, a ridosso della piazza dove si affaccia la chiesa di San Giovanni del Vaglio, il Castello con il Comune, la bianca torre campanaria, il bar, Palazzo Ruggero e palazzo Giordano. Arianna ci guida alla scoperta degli affascinanti orizzonti che da ogni parte qui generosamente si offrono allo sguardo, poi ci conduce alle segrete del Castello e ci introduce ai segreti del borgo. Non è più la capitale del principato Citra Montefusco. San Giovanni del Vaglio non è più cappella palatina. Molte delle sue chiese sono chiuse e l’oratorio di San Giacomo, se ben ricordo, ha urgente bisogno di più di qualche restauro. E nella voce di Arianna si sente tutta la malinconia per una nobiltà che da troppo tempo attende di essere riscoperta. La conforto raccontandole la mia sorpresa e meraviglia il giorno in cui giunsi qualche anno addietro e manifestandole la gioia per essere tornato e mi auguro, le dico, che il borgo venga tutelato e preservato per una rinascita che non può tardare.
“É una tela preziosa” dice Arianna, assecondando il mio pensiero “e va posta su un degno cavalletto e non lasciata per terra abbandona ad un destino di degrado.” Come non essere d’accordo. Nelle segrete del castello mi fa vedere un piccolo museo con i ricami realizzati con il tombolo. Eleganti e raffinati disegni che a me sembrano autentiche opere d’arte come gioielli in filigrana lavorati con tessuto prezioso. É una tradizione che bisognerà riportare in vita. Le sorelle Castagnetti sino agli anni del secondo dopo guerra hanno mantenuto la tradizione del tombolo con le ragazze a creare le loro opere d’arte sui disegni realizzati da esperti “cacciacarte” come erano denominati appunto i disegnatori di quegli intriganti labirinti, fiori, foreste miniaturizzate e intricati ghirigori.
Le maestre del tombolo erano in grado di lavorare addirittura con cento fustelli. Qualcosa di straordinario. E, mentre ascolto il racconto di Arianna, penso alle “Beguinistes” di Bruges nelle Fiandre che, in pieno Medio Evo, rivendicarono la loro indipendenza dal potere temporale ed ecclesiastico, entrambi in mani maschili, affidando il loro futuro ai ricami di Fiandra, appunto. E mi auguro che il piccolo museo sia il primo passo per istituire una scuola vera e propria che riporti in auge, in tutto il circondario, l’arte del ricamo e con essa il desiderio di progresso e autonomia di Montefusco e, perché no, di tutte le Terre di Mezzo del Sud che proprio negli antichi mestieri, oltre che nelle nuove scienze, e nella biodiversità dei territori dovranno cercare il proprio riscatto.
Nello scantinato del palazzo Ruggero, Arianna ci porta a vedere la cantina che risale a qualche secolo addietro con le cisterne per la conservazione del vino ed un torchio per la pigiatura delle uve. Qui a Montefusco si coltiva il Greco di Tufo. Un gran vitigno che produce un vino oggi protetto da denominazione di origine controllata, come il Fiano e l’Aglianico. Eh si, quelli della biodiversità, della dieta mediterranea, della agricoltura familiare, degli allevamenti podolici che qui ancora resistono, rappresentano i terreni su cui si gioca un altro pezzo del riscatto del Sud.
…A condizione che si fermi la deriva delle selve di pale eoliche e delle distese di campi fotovoltaici che rischiano di compromettere l’integrità ed il pregio del Mezzogiorno Mediterraneo sacrificandolo sull’altare di un’assurda quanto sospetta trasformazione in hub energetico a discutibile servizio del Paese e dell’Europa intera. Ecco quindi che la passione di cui sono intrise le parole di Arianna indica la strada che bisognerà percorrere. Qui, aggiunge, abbiamo anche una indimenticata tradizione delle ceramiche che qualcuno sta tentando di rivitalizzare e, insieme ad Errico, mi indica la bottega di Pasquale. Pasquale é un architetto che, anch’egli con inusitata passione, sta lavorando per riportare in vita quest’altro spicchio della tradizione di Montefusco.
La bottega è piena di creazioni pregiate. Noto delle assonanze con le ceramiche siciliane, le maioliche napoletane del chiostro di Santa Chiara, le produzioni arabe e berbere addirittura. L’architetto mi fa cenno di sì con la testa. Le reminiscenze arabe rivengono dalla contaminazione che risale all’epoca di Federico ed alla collaborazione con i saraceni da Federico fatti insediare proprio a Lucera. Ma vi sono anche creazioni che si rifanno alla cultura originale araba e berbera grazie all’opera del figliolo, archeologo ed appassionato di storia e cultura nordafricana e mediorientale. E anche in questo caso immagino che il passo successivo possa essere una scuola di ceramica. Perché no? Nel Medio Evo e per tutto il rinascimento, mi racconta Pasquale, Montefusco era nota dappertutto in Italia. Addirittura la dimensione fantastica si era impossessata di essa.
In un antico libro trovato in una collezione privata a Milano si parla di un drago che avrebbe avuto casa a Montefusco e che terrorizzava la popolazione locale. Tra il serio ed il faceto ipotizziamo che la fioritura di chiese e conventi potesse aver trovato la sua ragione nella difesa del territorio dal maligno, raffigurato nel drago. Ed immagino che dal recupero della cultura e civiltà delle terre del Sud, magari vivificate da nuova fantasia e nuovo ardore possa scaturire la scintilla per la loro rinascita. E penso che sia urgente riprendere a disseppellire la memoria a Mezzogiorno, riportare in superficie la sedimentazione della sua storia e della sua civiltà in uno con la riscoperta dei ricordi di quanti in esso son vissuti, per restituirgli l’anima. La passione che traspare dai discorsi sin qui imbastiti dai miei interlocutori mi indica che la strada è quella giusta.
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Montefusco. Da capitale a borgo.
Montefusco ha, oggi, un migliaio di anime, all’incirca. Il borgo è semi abbandonato o, se volete, semi deserto, anche se a me piace considerarlo uno scrigno affidato ai pochi fortunati abitanti, più o meno consapevoli del loro privilegio. Coloro che vivono quassù sono infatti depositari di una memoria dalla straordinaria consistenza storica oltre che tenutari di un territorio ricco di bellezza naturalistica ed ambientale e carico altresì di grande energia positiva. Questa è terra benedetta da dio, disseminata di chiese e conventi e segnata anche dalla presenza di eremi abitati sino all’ottocento da monaci che qui si ritiravano in preghiera praticando l’ascesi, come testimonia l’eremo di Sant’Antonio Abate che sono andato a visitare sugli impervi pendii della montagna.
É terra segnata anche dal passaggio di santi, papi e cardinali. San Francesco si fermò qui e, nei tempi più recenti Benedetto XIII, già cardinale Orsini, e Leone XIII, il papa della “Rerum novarum” che segnò la svolta sociale della chiesa verso il mondo del lavoro, soggiornarono nel cinquecentesco monastero dei francescani appena più giù, in direzione est, alle porte del borgo alto di Montefusco.
Anche il futuro Padre Pio da Pietrelcina, vi soggiornò. Fu ospite del convento allorquando era ancora un giovane studente di teologia e solo per un breve periodo. Tanto fu sufficiente, tuttavia, a fargli avvertire la profonda spiritualità di questi luoghi: in età avanzata egli avrebbe confidato che, se avesse dovuto lasciare il suo convento di San Giovanni Rotondo, avrebbe volentieri scelto di riposare a Montefusco. D’altra parte Montefusco è ad un tiro di schioppo da Pietrelcina, luogo di nascita del santo Padre Pio, dove, pure, io, laico e razionale oltre che scettico, avvertii un profondo senso di mistica energia allorquando vi giunsi nel corso del cammino che mi portò proprio a Montefusco e quindi ad Apice Vecchia.
Al centro del Borgo antico vi é quel che resta di un altro convento dei francescani: quello voluto da San Francesco stesso prima di ripartire per la Basilica-Grotta dell’Arcangelo Michele a Monte Sant’Angelo e proseguire per Brundisium da dove si sarebbe imbarcato per la Terra Santa nella sua impossibile missione di pacificazione tra Cristiani e Saraceni. Adiacente alla vecchia chiesa ormai distrutta vi è ancora l’oratorio di San Giacomo, prezioso nella sua struttura architettonica romanica arricchita da leggiadre, ribassate, arcate gotiche ed il cui soffitto è completamente affrescato con scene sacre tra cui spiccano quelle del martirio di San Giacomo, risalenti al primo seicento.
In fondo alla parete terminale dell’oratorio é stato portato alla luce un piccolo, straordinario affresco risalente addirittura al milleduecento. Esso mi affascina per la sua bellezza e mi cattura per le vicende vere o presunte che evoca intorno alla sua protagonista. Raffigura Santa Caterina d’Alessandria, vergine e martire dietro la cui vicenda, priva di solide fondamenta storiche e al limite della costruzione fantasiosa, mi piace immaginare una sorta di risarcimento postumo tributato dalla prima chiesa ad Ipazia, eccelsa figura di donna, filosofa e matematica per il martirio infertole in Alessandria dai monaci parabolitani istigati dal vescovo Cirillo all’inizio del V secolo dell’era cristiana.
Fu proprio in coincidenza con il martirio della pagana Ipazia che la Chiesa dispose l’assunzione agli altari di Caterina d’Alessandria che sarebbe vissuta all’incirca un secolo prima ed avrebbe subito il martirio, questa volta cristiano, a fronte di vicende assai simili, se non sovrapponibili, a quelle di Ipazia. Ammetto che la vicenda di queste due meravigliose donne da molto tempo occupa la mia mente, o, se volete, la mia fantasia. Era colta e carismatica, oltre che bellissima, Santa Caterina d’Alessandria, proprio come lo era Ipazia. E l’affresco di Montefusco ne dà conferma. Esso mi riporta all’immagine della Santa venerata anche a Napoli nella basilica di Santa Caterina a Formiello e a quella rappresentata nella basilica a lei dedicata in quel di Galatina in Terra Messapica, entrambe a me particolarmente care.
Insomma Montefusco è oggi un piccolo borgo ormai spopolato e semi deserto che tuttavia racchiude tesori, memoria, storia, cultura propria di una capitale. D’altronde essa segnava il confine ed il baluardo del regno di Napoli rispetto ai possedimenti papali ed aveva appunto il rango di capitale del Principato Ultra che segnava il territorio compreso tra Benevento, Salerno, Avellino e le terre Daune. Fu la rivoluzione francese prima e quindi le decisioni borboniche di inizio ottocento a decretarne la decadenza con lo spostamento nella pianeggiante Avellino della sede del tribunale e del comprensorio amministrativo prima allocati in Montefusco.
Le vicende unitarie ed il destino da sottosviluppo cui il Sud rimase invischiato o venne condannato fecero il resto.
Gerardo, che mi ha accompagnato con Errico, nella mattinata di questa splendida domenica ricca di sole e con un cielo terso ed azzurro, mi ha rivelato molti aspetti della storia di Montefusco.
Medico di professione e storico per passione egli ha studiato a fondo i trascorsi di Montefusco.
Mi fa osservare in più punti tra le chiese di Montefusco la presenza dell’agnello con vessillo, simbolo di San Giovanni il Battista, divenuto emblema di Avellino che proprio a Montefusco subentrò nel controllo del territorio. Insomma una sorta di passaggio di consegne con annesso simbolo e vessillo.
Stemmi nobiliari sono disseminati ovunque ed egli me li indica uno ad uno con meticolosa attenzione e filologico amore.
Mi coinvolge con il suo entusiasmo allorquando mi racconta della presenza, nel “Roman de la Rose” di una chanson dedicata a Montefusco, a dimostrazione della grande notorietà raggiunta sin dal Medio Evo.
La vicenda del drago che infestava la montagna di Montefusco era giunta in maniera fantasiosa ed immaginifica sino a Milano ed ai rapsodi e menestrelli provenzali.
Qualcuno aveva anche ipotizzato che la proliferazione di chiese e conventi fosse da mettere in relazione alla presenza del maligno che tentava di infestare quella terra benedetta. La venerazione dell’Arcangelo Michele andava pure essa in quella direzione.
In realtà, mi racconta Gerardo, la leggenda del drago era sorta sulla base di una vicenda realmente verificatasi.
Un grosso cinghiale dalle dimensioni fuori dal comune aveva preso ad infestare i boschi intorno a Montefusco attaccando quanti si inoltravano per salire in cima al castello.
La questione si risolse con l’uccisione della belva ma la storia del drago sopravvisse tanto da ispirare più di una leggenda.
Tra un racconto e l’altro il tempo é volato.
Il Padre Priore del convento mi ha concesso udienza davanti alla piccola cella che ospitò il Santo Frate da Pietrelcina. Una cella minuscola con un lettino addossato alla parete ed un tavolino con una sedia. Nient’altro. Più in là, sull’altro corridoio, la cella occupata da Papa Leone XIII.
Ha il volto illuminato dal sorriso, felice di raccontare la storia di Padre Pio, un uomo burbero che in dio deponeva la sua fede e orgoglioso di rievocare la predilezione di un grande papa che non aveva disdegnato la cella di un umile convento.
E sembra, il Priore, voler rammentare che umiltà e grandezza sono l’una il risvolto dell’altra. E mentre ci allontaniamo ci leggo una sorta di metafora di Montefusco e di tutte le Terre di Mezzo del Sud che ovunque coniugano insieme grandezza e miseria, povertà e ricchezza e che attendono di ritrovare la memoria per la loro rinascita. E avviandomi al mio alloggio Lucia, la giovane ragazza che mi accompagnò in visita per Montefusco la prima volta che io vi giunsi, mi intravede e mi saluta allegra avendomi riconosciuto.
E penso che anche questo é un buon segnale.
La rinascita di questi borghi e del Sud tutto intero dipende dalla loro capacità di trattenere i propri figli e figlie e dalla volontà di questi di volerci rimanere o tornare, come mi disse appunto Lucia, allora. É un bel viatico, mi dico, mentre, così confortato, mi avvio anch’io, felice per un momento.
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Montefusco. Dalla damnatio memoriae al riscatto. Ho lasciato Gerardo ed Errico che è ormai l’ora di pranzo. Nella piazza assolutamente deserta che, guardata dalla torre campanaria, plana all’ombra della parete laterale della romanica chiesa di San Giovanni del Vaglio, io attendo l’arrivo di Francesco Saverio da Napoli.
É una dolce solitudine quella che mi assorbe e mi spinge ad osservarmi intorno. La giornata è straordinariamente bella. L’aria è limpida ed il cielo è sereno. Gli orizzonti di conseguenza mostrano un panorama davvero sorprendente nel suo incanto. Ad ovest e verso nord il Taburno ancora imbiancato e le cime del Massiccio del Matese disposte a formare il profilo del Dolce Dorme, a sud i pendii e le creste dei monti dell’Irpinia, ad est, lontani, i monti Dauni cingono in un serto frastagliato di luce e colori, il borgo di Montefusco che spicca con la sua bianca pietra tra l’azzurro profondo del cielo ed il tenero verde delle selve di castagni che tutto lo avvolgono.
In fondo, nella valle ai suoi piedi, una fitta trama di paesi, borghi, villaggi, frazioni e piccole città, é disposta come la trama di un tessuto pregiato. É davvero una visione impareggiabile che costringe tuttavia a chiedersi perché su tanta bellezza si sia abbattuto il destino amaro della damnatio memoriae. Sembra che, fuori di qui, nessuno conosca la storia di Montefusco sprofondata nella più assoluta dimenticanza. Eppure è stata una grande storia che é durata per molti secoli, anzi più di un millennio. Non è stata gloria effimera.
Ancora nel XVII e XVIII secolo Montefusco dominava il circondario. Addirittura una spina della corona di Cristo, giunta direttamente da Gerusalemme, affidata alla già cappella palatina di San Giovanni del Vaglio ed oggi custodita al sicuro da qualche parte in Paese contro il reiterarsi di possibili, sacrileghi furti, ne nobilita tuttora la grandezza oltre a sottolineare per essa l’attenzione di papi e cardinali. Principi e santi la abitavano e il popolo cresceva consolidando il suo ruolo di contraltare del potere.
La cultura spaziava dalla giurisprudenza all’avvocatura, alla storia, all’amministrazione, per giungere sino alle forme teatrali di sberleffo del potere depositato nelle mani di nobili ed ecclesiastici. Parallelamente alla maschera napoletana di Pulcinella si affermava a Montefusco la maschera del “Ngiarmista”. Era costui un attore che indossava la maschera enfatizzata del fatuo nobile aristocratico per sbeffeggiarne la tronfia vanagloria. A cavallo di un asino improvvisava irriverenti e caustiche cantate e filastrocche emulando le fabulae atellanae apprezzate dai Romani che le avevano ereditate dal teatro “Osceno” inventato dai popoli Osco-Sanniti.
Gerardo mi fa dono di un suo libro che indaga sul personaggio-maschera divenuto famoso a Montefusco e nel Principato Ultra proprio tra XVII e XVIII secolo. É un personaggio caustico e addirittura più audace di Pulcinella. Egli sbeffeggiava il potere scimmiottando ed irridendo il modo di vestire, di parlare e ragionare dei suoi rappresentanti e ricorrendo, a tal fine, a dei veri e propri canovacci teatrali recitati dagli “Ngiarmi” che a carnevale conoscevano il loro massimo trionfo. Poi l’oblio e la damnatio memoriae abbattutasi su Montefusco a partire dal XIX secolo.
Oggi addirittura nessuno ne conosce le molteplici sfaccettature storico-culturali. Io stesso ci sono giunto quasi per caso, attratto dalla visione del borgo raccolto come in un nido in cima al colle intravisto nel cammino che mi avrebbe condotto ad Apice. La scoperta di quel borgo fu una sorta di rivelazione come lo era stata la scoperta delle Terre di Mezzo da me attraversate in millecinquecento chilometri percorsi a piedi nel cuore del Sud. É tempo che Montefusco si riappropri della sua memoria e su di essa ricostruisca il suo futuro. Può essere anche la giusta metafora della rinascita del mezzogiorno. Perché no?
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É lunedì mattina e mi accingo a ripartire. Tra un pò passerà Errico che mi accompagnerà a Benevento da dove raggiungerò la mia destinazione. Francesco Saverio proseguirà per Mirabella Eclano, anche quella debordante di storia e cultura, oltre che delle vestigia romane esaltate dalla via Appia. Ieri sera, nelle sale del palazzo Giordano, abbiamo ragionato di letteratura e poesia traendo spunto dalle vicende storico-culturali del Sud, di cui Montefusco rappresenta una evidente metafora. Ci siamo incamminati lungo i sentieri della memoria ricomponendo i ricordi ed evocando il desiderio intriso di nostalgia per ricomporre il tempo del Sud. Una forte empatia sembrava legare quanti erano presenti. Vi erano anche dei ragazzi e ragazze.
Due giovani artisti, lei soprano e lui pianista, hanno eseguito dei brani con una passione travolgente sostenuta da una bravura commovente considerata la giovane età di entrambi. Che il tempo si stia ricomponendo? Questa mattina con Francesco Saverio abbiamo passeggiato per le vie deserte del borgo in attesa che si animasse. É previsto un matrimonio nella bella chiesa di San Giovanni del Vaglio e noi aspettiamo che riapra il bar dove Arianna ci farà un ottimo caffè. Intanto ci lasciamo il castello con il municipio sulla nostra sinistra e scendiamo giù verso il belvedere che dà verso le montagne irpine. Costeggiamo un convento maestoso nella sua fabbrica di fattura rinascimentale. La chiesa, dalle linee pulite ed essenziali, a cui esso è addossato, é aperta. É un bel segnale.
Temevamo che quello pure fosse chiuso, deserto. Dalla scalinata della Chiesa scende una sorella. É giovane ed ha gli occhi felici. “Siamo Suore Carmelitane e siamo subentrate alle Clarisse. Questo è stato un convento di clausura.” Mi dice in risposta alla mia domanda se il convento è in funzione. “Siamo in cinque per adesso, ma per il futuro chissà…” e mentre apre un grande portone ci saluta allegra. L’aria è frizzante. Il cielo è puro e si dispone ad illuminarsi di luce vivida. Sento un po’ di magone al pensiero di dover andare via. É un buon segno, penso, anche questo.
Come un ottimo segno é il sorriso della sorella carmelitana, l’apertura del convento, la chiesa che sta per ospitare un matrimonio, il bar che va ad aprire…le ragazze che non vogliono andarsene, la giovane cantante lirica ed il giovane pianista innamorati della musica e del canto, le ceramiche di Montefusco e e le creazioni del tombolo tutte lì, sui nastri di partenza, pronte a riprendere la corsa…e poi la bellezza di questo cielo azzurro cesellato all’orizzonte dalla vetta del Taburno, dalle cime del Matese, dalle verdi montagne irpine e dai lontani Monti Dauni… di più proprio non si può…