I vulcani, luoghi di creazione e distruzione hanno da sempre affascinato gli uomini di cultura, poeti ed esploratori. Il Vesuvio con il suo abbraccio scenografico con il golfo di Napoli, è stato teatro di miti e leggende ma anche di immani catastrofi. Dal 79 dopo Cristo fino al 1944 ha avuto una continua storia eruttiva, oggi vive uno stato di quiescenza sotto il continuo controllo dell’Osservatorio vesuviano, sito sullo stesso vulcano. Il Vesuvio con un altezza di circa 1280 metri è situato nel versante sud-orientale della città di Napoli, in Campania, nel territorio dell’omonimo parco nazionale istituito nel 1995. Il vulcano, classificato come vulcano a recinto, sorge all’interno di una parziale caldera di circa 4 km di diametro, caldera che è la parte restante di un precedente struttura vulcanica, detto Monte Somma, dopo che la grande eruzione del 79 ne determinò il crollo del fianco sud in corrispondenza del quale si sarebbe formato il cono attuale con il suo cratere. Un paesaggio fiabesco, in alcuni tratti arido, brullo , ma in altri una esplosione della natura con una flora ricca di sgargianti fiori fra cui primeggia la ginestra. Un terreno fertile per le ceneri vulcaniche che alimentano anche vitigni pregiati. Una meraviglia del Sud Italia da visitare, anche grazie alla valorizzazione che ne sta facendo il Parco. Un nuovo viaggiatore, Antonio Corvino, sull’esempio di tanti letterati e poeti ha percorso recentemente gli aspri sentieri curando un reportage ricco e pieno di suggestioni che qui offriamo ai lettori in anteprima.
Devi salire sul monte Somma per scoprirla, l’altra faccia del Vesuvio. Come Michael Collins che lasciò Armstrong e Aldrin all’allunaggio ed egli se ne andò dall’altra parte a vedere il lato nascosto della luna. Io ho fatto altrettanto. Ho lasciato il Golfo, Napoli, Capri ed Ischia, i Camaldoli e Posillipo, la piccola isola di Megaride e tutte le meraviglie di Partenope e me ne sono andato dall’altra parte. Verso Ottaviano e la galassia dei paesi vesuviani, alla ricerca del Monte Somma, per imboccare il sentiero che conduce in cima ai “cognoli” i picchi lavici che si inseguono in ripida e rapida successione, come il manzoniano Resegone, dall’epoca in cui si formarono 40.000 anni addietro, quando il Monte Somma era tutt’uno con il Vesuvio che era alto duemila metri e montava la guardia al Tirreno grande e profondo come l’Oceano. E i sapiens non erano ancora divenuti i padroni di quel pezzo di terra incantata e gli dei non erano ancora scesi dall’empireo ad abitare sull’Olimpo né da queste parti, a scrivere il destino degli uomini.
Così mi lascio alle spalle la piana che si stende come una conca o una valle sino al mare e inizio a salire alla scoperta del mistero Vesuvio, sterminatore implacabile ma anche pietoso custode dell’anima di questa terra oltre che del suo ecosistema unico che la rende fertile e benedetta come nessuna. La biodiversità di queste contrade è piena di infinita, inarrivabile, esclusiva bontà. Il paesaggio è un incanto, il clima sorridente e l’agricoltura è una cornucopia colma di sorprese e di miracoli. I lapilli e le ceneri hanno lasciato sul terreno uno strato ricco di minerali ed hanno creato un humus docile e fecondo. La flora qui si compone di mille specie vegetali. I fiori sono in festa in questo periodo ed il cielo è segnato dalle traiettorie di falchi e poiane mentre intorno il canto armonioso di piccoli uccelli stanziali ed il volo radente ed intermittente delle farfalle riempiono di poesia i nostri passi. È piovuto e intere famiglie di funghi fanno capolino ai piedi degli alberi. Ed il fungo, mi dice Marco, la mia guida, è il grande protagonista della rigogliosa vegetazione di questo angolo di paradiso. Il lichene coralliforme “stereo aulum vesuvianum” è il protagonista assoluto della frantumazione delle formazioni laviche fino a trasformarle in humus ricco e generoso. Con esso una miriade di altri funghi e licheni instancabilmente, sin dalla notte dei tempi, han trasformato uno spazio ostile e desertico nell’accogliente e rigoglioso ambiente che ci circonda. Qui tutto sembra derivare dalla benedizione dell’universo che ha compensato l’incerto fato ed il rischio dormiente nelle profondità del vulcano ed anche dei prospicienti campi flegrei con la generosità delle bellezze e delle ricchezze ovunque disseminate.
Una fitta vegetazione ci avvolge e ci spinge in alto proteggendoci dal sole che tuttavia non punge in questa estate strana che tarda a manifestarsi. Dopo aver attraversato Somma Vesuviana, San Giuseppe Vesuviano e San Sebastiano anch’esso fregiato dell’appellativo Vesuviano, ci siamo addentrati in Ottaviano, nome che mi rimanda alle fortune di Cesare Augusto Ottaviano ed alla gloria romana che mi auguro possa finalmente avvolgere questa cittadina per troppo tempo violata dalla protervia di gente autoproclamatasi padrona assoluta e dispensatrice di morte e cattiva fama tra l’ignavia dei pubblici poteri e la paura o l’interesse di chi vi abitava. Abbiamo così lasciato dietro di noi il bianco santuario e la sua cupola, il castello recuperato finalmente a nuova vita, e più felice immagino oltre che consona alla sua storia, il dedalo di vie e viuzze della città e finalmente abbiamo risalito la strada che porta alle pendici del parco nazionale del Vesuvio-Somma.
La mia guida è stata parca di parole. Mi ha raccontato la storia dei licheni e del fungo stereo aulum vesuvianum che lo ha affascinato al punto da aver maturato la passione per la coltivazione dei funghi alla ricerca delle loro salvifiche proprietà. Novello Tiberio, penso tra me, che, in quel di Sepino sul Matese aveva scoperto il potere taumaturgico delle muffe cresciute sulle pareti del pozzo di casa ben trent’anni prima di Fleming insignito del Premio Nobel per questo, al posto, ahimè dello stesso Tiberio, primo scopritore dimenticato della penicillina. Intanto lascia che sia io a scoprire ogni cosa.
Mi da giusto le informazioni di base. Il resto, mi induce a pensare, spetta a me. Le informazioni di base consistono nel rendermi edotto della data di istituzione del parco nazionale, delle difficoltà che ne accompagnarono la nascita culminate nell’omicidio di un esponente dell’Arma da parte dei bracconieri o di quanti vedevano minacciati i loro interessi o si ritenevano i padroni del territorio. Era il 1995, mi dice, mostrandomi una targa in uno spiazzo da cui si diparte il sentiero che sale in cima al Monte Somma e mi condurrà, come Michael Collins dietro il lato sconosciuto della luna, alla scoperta della faccia nascosta del Vesuvio. “Da quanto tempo non vado sul Vesuvio?” Rispondo a Marco, fisico asciutto da arrampicatore e viso aperto pieno di silenzi appena addolciti da ammiccanti e complici sorrisi, via via che saliamo ed io scopro, tra la fitta verzura degli alberi, i primi squarci di cielo, lassù, in alto.
“Ero un ragazzo” proseguo, preso dal dubbio se sia il caso di rivelare la mia età. Alla fine cedo all’istinto della realtà e racconto la mia verità. “Ero un ragazzo, avevo vent’anni, e un bel mattino di primavera me ne andai in cima al cratere. Dalla parte del mare, ignorando il Monte Somma. Allora era tutto selvaggio e, grazie a dio, libero. Niente biglietti, niente orari, niente guide. Le mie scarpe si inarcarono al punto che dovetti buttarle via mentre calpestavo il terreno che scottava e mi affacciavo a vedere, pieno di timore reverenziale ed in preda all’adrenalina, le misteriose colonne di fumo che si levavano da là dentro. Era il 1970.” Marco mi guarda con una venatura di incredulità, ma non si lascia sfuggire alcun suono di meraviglia. Dice solo ”adesso è tutto cambiato.” Si, mi sembra ovvio e, direi, finalmente. Il Parco mi sembra ottimamente tenuto. I sentieri ben segnati. Il Monte Somma splende nel rigoglio dei suoi boschi, nonostante le devastazioni degli incendi di qualche anno addietro. Saliamo in compagnia di una famigliola che presto ci lascerà per dedicarsi ad una sontuosa colazione con cornetti e sfogliatelle. Noi imbocchiamo il sentiero che ci condurrà ai Cognoli. Dopo cinque ore di arrampicata e 10 chilometri di sentieri duri che si arrampicano tra una folta ed intricata ma accogliente vegetazione verso le cime.
Ci sono dappertutto gigantesche robinie intorno a noi e man nano che saliamo, lecci e castagni, querce e pini. Anche qualche abete si intravede qua e là. Nei valloni i segni ancora evidenti dell’incendio disastroso del 2017. Tronchi abbattuti ed alberi ancora in piedi protesi al cielo come scheletri. Ma i segni della ripresa sono evidenti. Interi filari di giovani ontani vanno a suturare la ferita al suolo mentre nugoli di polloni intorno agli antichi castagni bruciati si vanno elevando verso l’alto, allegri e forti. Scorgiamo anche qualche esemplare di betulla oltre che alcuni esemplari di querce maestose e dei pioppi a dimostrazione di una falda che deve essere generosa nel sottosuolo.
Poi, via via che ci arrampichiamo verso i mille metri, la vegetazione boschiva prende a diradare. Siamo ormai sommersi dal mare di ginestre e dai cespugli di valeriana che annunciano l’avvicinarsi dei Cognoli a mille cento cinquanta metri appena un po’ al di sotto del cratere del Vesuvio che si trova a mille duecento ottanta. Un isolato esemplare di Carpino sfuggito all’incendio sembra montare la guardia a quel mare che diventa sempre più vasto. Amo le ginestre. Esse mi emozionano e mi riportano a Leopardi ed al suo testamento poetico e spirituale affidato proprio alle ginestre che popolando il formidabil monte, il severo Vesevo e che mostrano anche agli uomini come affrontare il duro destino, affidandosi al muto soccorrersi del social consorzio tra essi, se ne saranno capaci e sapranno coltivare la reciproca compassione.
Le ginestre sembrano davvero un popolo racchiuso in una selva. Si stringono le une alle altre e coprono i fianchi del monte districandosi tra le fenditure della lava. La valeriana fa loro da ancella coprendo i bordi esterni del loro regno mentre fiori sgargianti, grossi come papaveri da oppio dalla corolla formata da petali gialli e splendenti come il sole o piccoli come gerani di campo e fitti come selvatici garofani riempiono di colore il nostro percorso. Rovi maestosi e rose delicate di macchia che qui chiamano cisto, completano il quadro.
Marco mi osserva curioso e come in attesa. Ci stiamo avvicinando alle creste dei Cognoli ed egli attende che io li scopra oltre l’ultima ridente e rigogliosa macchia che si inerpica verso l’alto nascondendo il Vesuvio e mostrandoci il cielo nella sua totale immensità scandito da bianche nuvole che tutto lo segnano esaltandone l’azzurro intenso, pulito e trasparente. Davvero questo cielo è il regno delle nuvole. Improvviso, il lato nascosto del Vesuvio. Si staglia d’un tratto davanti a me, maestoso, orgoglioso come un dominatore. O una sentinella. Trattengo il fiato e mi fermo. Si erge in tutta la sua isolata grandezza. Separato dal Monte Somma da una sella oltre la quale si distende la Valle dell’Inferno che attraverseremo domani. Di qua e di là uno scorcio del golfo lascia intravedere il miracolo di Napoli e del mondo di Partenope.
Dal lato opposto, oltre la piana antropizzata all’inverosimile, i Monti Picentini tra Avellino e Salerno, il Taburno verso Caserta e Benevento, e più in qua il Partenio che da Nola corre verso Avellino con il santuario di Montevergine e di fronte, superbi, si stagliano i Monti Lattari che si allungano chiudendo dall’altra parte il golfo di Salerno e di qua il golfo di Napoli sino a punta Campanella di fronte a Capri. Il monte San Michele con il Molare ed i Tre Calli sono di fronte a me. In direzione del mare si intravede Torre del Greco, Torre Annunziata e Castellamare di Stabia. Più in qua, all’interno, Pompei e quindi Ercolano. È da questo lato che Il Vesuvio eruttò polvere e cenere, lapilli e lava che le seppellirono nel 79 dopo Cristo.
Mi fermo e osservo incapace di proferire verbo, tanta è la bellezza e l’emozione. Finalmente vedo il volto raggiante di Marco. “Non ti ho voluto dire nulla lasciando che scoprissi da te l’immensità del Vesuvio guardato dal Monte Somma”. Ed io penso di nuovo per un attimo a Michael Collins che guardava estasiato il lato oscuro della luna mentre Armstrong e Aldrin scendevano sulla superficie lunare e tutti gli altri a Cape Canaveral attendevano trepidanti che l’Apollo riapparisse con Michael Collins sano e salvo. Ecco così mi sento io davanti al Vesuvio segreto che nasconde tutto quanto io adesso sto vedendo rivelandosi qui incommensurabilmente più affascinante di quanto non sia sul versante cittadino.
L’atterraggio sul cratere
Ho ancora negli occhi l’ardita sequenza dei Cognoli in cima al Monte Somma e la visione del Vesuvio, dell’altra faccia del Vesuvio, quella che mi si è svelata dalla cima dei picchi arditi e aguzzi formatisi allorquando la vetta del gigante, posta a duemila metri di altezza, collassò, svuotata dal fiume di magma, cenere e lapilli incandescenti eruttati ad altezze incredibili e a distanze, pure esse, incredibili, dal cratere apertosi sulla parete laterale, in direzione di Pompei, Ercolano, Stabiae, a poco più di metà strada, intorno ai mille e duecento metri.
Quella eruzione aveva provocato la profonda frattura, allora terrificante ed oggi meravigliosa, che ieri avevo osservato aprirsi sotto di me come un baratro e che adesso guardavo incombere sopra di me nel vuoto che isolava l’attuale vulcano e lo rendeva non so se maestoso o terribile. Quel vuoto, vasto come la montagna scomparsa e magnetico come una calamita imprigionata al di sotto della crosta terrestre, liberava il grande monte sovrastato dal cono vulcanico che, a sua volta, chiudeva il golfo sottostante, delimitava la piana campana e l’agro nocerino e ammiccava, tra il benevolo ed il minaccioso, alla città di Napoli, quasi a far dimenticare, ma non del tutto, le immani catastrofi.
Quelle catastrofi, Plinio il giovane, le aveva contemplate dall’altro lato del Tirreno, cogliendone il fascino e, soprattutto, subendone la inaudita violenza che bloccò la flotta che egli, in un impeto di generosa solidarietà, aveva fatto muovere da Capo Miseno, nel tentativo di portare qualche soccorso alle misere popolazioni conclusosi, ahimè, con il mortale naufragio che tutto spazzò via. Lo spazio tra il vecchio Monte Somma ed il giovane Vesuvio è occupato da una enorme striscia di terra che assume forma e funzione di una di gigantesca sella che tiene uniti i due monti che dal mare appaiono appaiati a formare il duplice cono consacrato nelle cartoline ricordo e che contrasta con l’immagine fissata in un prezioso affresco pompeiano, oggi custodito al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che mostra la piramide Vesuviana compatta e solitaria come doveva apparire prima della eruzione del 79 dopo Cristo.
Oltre la sella su cui, accanto alle millenarie sedimentazioni laviche, giacciono ancora i segni del terribile incendio del 2017, si staglia davanti ai miei occhi, severo e maestoso, privo di vegetazione eppure pieno di sfumature, luce e colori, il Monte Vesuvio. Il sole lo avvolge totalmente ed esalta la sua solitudine come un monarca assiso sul trono. Nuvole bianche e vagabonde lo sovrastano. I Cognoli e tutto intero il Monte Somma con i suoi boschi, i suoi picchi, i dirupi ed i valloni gli fanno corona. Appena più in là, verso est, la Valle dell’Inferno, dove un tempo scorreva un corso d’acqua poi ingoiato dal fiume di lava, ci avrebbe aperto la strada verso i larghi fianchi del vulcano in direzione del Cratere.
Il mio sguardo corre da un monte all’altro incapace di fermarsi su uno solo e desideroso di tenerli uniti come un unico immenso miracolo della natura. D’altra parte, avendo decido di salire in cima al cratere dalla parte nascosta del Vesuvio dobbiamo necessariamente costeggiare il Monte Somma la cui immensità continuo ad ammirare come un neofita che si è imbattuto in qualcosa di sublime che somiglia alla sua idea di purezza primordiale con la sequenza dei suoi picchi che si innalzano sull’ampia depressione che lo separa dal Monte Vesuvio. Ed io continuo ad immergermi nella sua visione mentre saliamo lungo lo stradone tutto curve e tornanti che sale verso i rotondi pendii del Vulcano che, tuttavia, sembrano allontanare senza rimedio il cratere immerso in un cielo azzurro reso trasparente dalle piogge dei giorni scorsi e spazzato da un fresco vento che da levante fa muovere lentamente le residue nuvole che sembrano originare da esso o in esso andare a precipitare.
Le ginestre e le valeriane intanto si susseguono in un crescendo che non conosce soste e producono su di me un sentimento di straniante, avvincente ammirazione. Ci immergiamo finalmente nella depressione che si apre dopo la sella e che qui chiamano, appunto, Valle dell’Inferno. Non possiamo attaccare il solitario monarca direttamente. Si innalza con dolcezza, addirittura il giallo brillante delle ginestre ed il rosso-amaranto delle valeriane che lo accompagnano gli conferiscono una grazia accattivante, ma la sua superficie è ripida e terribilmente brulla. Le ginestre crescono tra le fenditure della lava ed i cespugli di valeriana si abbarbicano tra le pietre del terriccio scivoloso frantumatosi in piccoli infiniti poligoni. No, non puoi salire direttamente al soglio del Vesuvio.
Devi attraversare la primordiale Valle dell’Inferno, lasciarti sui lati i fiumi di lava, immergerti nella vegetazione lussureggiante delle propaggini del Monte Somma e aggirarlo da est per poi finalmente imboccare il sentiero che sale, sale tra selve di ginestre fiorite e boschi di valeriana, sino a raggiungere le sue pendici quando sei ormai tra gli otto ed i novecento metri di altitudine ed a circa trecento/quattrocento metri dalla vetta. Perché il Monte Somma è parte integrante del Monte Vesuvio, mi ripeto istintivamente a giustificare la mia pertinace volontà di tenerli uniti nel mio ideale di primordiale, innocente integrità suggerita dalla natura che mi circonda.
Non si erge in contrapposizione ad esso ma in continuità con esso ed i loro fianchi si mischiano. La Valle dell’Inferno rappresenta l’anello di congiunzione dei due giganti. Ed allora questa mattina, sabato mattina, con Marco, passato a prendermi dal mio alloggio, ci siamo incamminati in direzione della parte nascosta del Vesuvio fino a giungere ai piedi della sequenza dei Cognoli che incombe su di noi. Ammiccante, non minacciosa. Ieri eravamo in cima a scoprire il lato nascosto del Vesuvio, oggi siamo ai loro piedi e quelli sembra che ci guardino riconoscendoci e ammiccando con le enormi creste protese verso di noi.
Siamo in mezzo. Di qua vi sono gli arditi picchi dei Cognoli, di là il compatto cono del Vesuvio che si chiude in cima come un imbuto rovesciato o una immensa piramide. Roba che solo l’Universo nel suo incedere senza tempo poteva immaginare. Attraversiamo la sella che scavalla i due monti e ci dirigiamo verso la Valle dell’Inferno. La lava frantumata dal prodigioso lichene stereo aulum vesuvianum, è diventata humus fecondo che alimenta la ricca vegetazione che ci accompagna. Dappertutto le odorose, gentili e compassionevoli ginestre che profumano di fresco e ci allietano nel nostro procedere.
I loro steli ci accarezzano muovendosi con noi. Man mano che avanziamo alle ginestre odorose si aggiungono e a tratti si sostituiscono le ginestre del carbonaio, belle e compassionevoli come quelle, ma robuste sino a diventare alberi ed a formare dei boschi che popolano interi pezzi del monte e della valle ed i cui rami solidi e compatti un tempo venivano utilizzati dai carbonai per produrre la carbonella. Con esse si alternano i più piccoli e teneri cespugli delle ginestre giunte, ormai è un secolo, dall’Etna a consolidare il terreno lavico e sdrucciolevole del sistema geologico Vesuvio-Somma.
La valeriana, dal canto suo fa da straordinario contrappunto a tanto splendore. Lungo il sentiero l’antica lava si è trasformata in soffice pietrisco, minuscola pietra pomice ed i nostri scarponi affondano in essa come fosse ruvida sabbia e rallentano il nostro procedere. La vegetazione recente sta rimarginando le ferite dell’incendio che tuttavia ha lasciato profondi segni tuttora evidenti. Ma i licheni ed i funghi che popolano queste terre fanno buona guardia e promettono di completare l’opera ripristinando il perduto vigore del terreno e restituendo la originaria rigogliosità alla vegetazione.
Il panorama è accogliente ed anche quando ti espone ai raggi solari oggi piuttosto caldi, ti protegge e ti conforta con la sua verzura e con la grazia di questi luoghi unici ed irripetibili. Nella Valle dell’Inferno la pietra lavica diviene scultura, installazione, crea protuberanze che si proiettano verso il cielo e scava fenditure che scendono in profondità nella roccia fino a popolare di strane e fantastiche creature lo spazio in cui il magma consolidatosi per strati intrecciati e sovrapposti come robusto cordame di antichi velieri ha creato un vero e proprio percorso museale disseminando fantastiche suggestioni ed immaginifiche presenze.
Ci attardiamo tra di esse e penetriamo, attraverso una piccola apertura, seminascosta dalle ginestre, dentro una fenditura profonda che si innalza stretta quasi fino a toccarsi tra due pareti laviche tra le quali i raggi del sole si incuneano creando giochi di luce ed effetti di grande suggestione. Lì sembra di poter scorgere la genesi stessa della nostra terra o almeno la formazione di queste rocce che certo nelle eruzioni diventano proiettili e fiumi di fuoco ma possiedono le leggi dell’universo e, smesso il distruttivo innocente furore, mostrano la intima e positiva essenza dell’Universo che certo si muove con tempi, regole e obiettivi sconosciuti agli uomini e talora per essi distruttivi.
Riemergiamo infine. Il sole è ormai alto ed accecante per i nostri occhi abituatisi a scrutare nel buio il miracolo della natura. Il profumo delle ginestre ci avvolge di nuovo ed il canto degli uccelli ci allieta mentre nel cielo una coppia di falchi pellegrini si lascia andare a volute ardite spinti da correnti ascensionali che li fanno volare ad ali spiegate, elegantissimi. Provo ad immaginare i fiumi di lava, le bombe di pietra, le ceneri ed i lapilli che han dato a questo posto il nome di Valle dell’Inferno ma oggi essa ha caratteristiche e movenze davvero paradisiache.
Siamo ormai al limite di essa. Abbiamo impiegato oltre tre ore per attraversarla contro le due necessarie a passo regolare. Le magie delle sue rocce, l’incanto dei colori, dei profumi, dei suoni hanno frenato il nostro cammino. Infine siamo usciti. Dopo aver dato un ultimo sguardo a trattenere il nostro desiderio di bellezza. Su di noi ormai incombe il Vesuvio ed è tempo di salire alla sua corte. Dovremo muoverci lungo i suoi fianchi sino a ritrovarci il golfo, nella sua immensità e nella sua gloria, sotto di noi. Tutto intero. Con i monti Lattari che si distendono a formare la Penisola Sorrentina con Capri che dispiega le sue ali come una farfalla poco più in là da un lato mentre dall’altro si succedono in rapida sequenza Ischia e Procida con Vivara quasi nascosta dietro di essa e capo Miseno che chiude la baia di Pozzuoli e accarezza Nisida appena dietro a Bagnoli con Cuma e Averno in rapida successione.
C’è da rimanere increduli e fermarsi a contemplare l’infinito incanto dell’universo che ha mostrato il suo volto truce ed arcigno nel corso dei millenni e mantenendo tuttora più di qualche minaccia, ma non si è risparmiato quanto a generosità e leggiadria. Saliamo in silenzio. È tale la fascinazione prodotta dal mondo che si va componendo davanti ai nostri occhi via via che saliamo, da rifugiarci nel silenzio. Solo gli sguardi si incrociano pieni di meraviglia e di gratitudine. Stiamo avanzando sul fianco rotondo che da verso il mare, quello esposto da sud ad ovest e che ci fa scoprire dapprima la Penisola Sorrentina e subito dopo Capri che si distende sulle acque con le sue ali da farfalla. L’agro nocerino, come già prima la piana campana, si defilano ormai dietro la costa.
Avanza sotto di noi il profilo di Napoli con il suo porto, il suo tessuto urbano e la corona dei sui colli. Ed infine appare intero l’altro braccio del golfo con le isole ed i promontori. È una vista mozzafiato. Mai avevo racchiuso in un solo sguardo il grande golfo, visto l’abbraccio del Tirreno ad un territorio così vasto, compreso la sacralità di una terra cercata da uomini e dei e da questi ultimi protetta anche contro i cataclismi più terribili della natura e contro le violenze degli uomini. Così accelero il passo per giungere prima possibile sulla sponda del monte che mi farà dominare tutto intero il panorama da est ad ovest. Ed il Monte Vesuvio diventa docile. Ha completamente perduto il piglio ostile che mostrava dalla valle dell’inferno e che era ancora evidente allorché avevamo attaccato il sentiero che ci aveva portato ai suoi pendii. Adesso il suo profilo addolcito dall’azzurro del mare e del cielo che si congiungevano all’orizzonte avvolgendolo interamente, sembrava addirittura chiedere affetto e comprensione.
La natura brulla con le colate di lava rafferma che da giù lo mostravano inospitale ai miei occhi, adesso mi appare come un velo di Maya pronto a squarciarsi per mostrare un volto che chiede e da comprensione. Il manto di ginestre man mano che saliamo si dirada lasciando la sua superficie sempre più nuda e, a me sembra, anche malinconica e solitaria. La valeriana sola si inerpica consolatrice ma le sue dimensioni si rimpiccioliscono sino a diventare striminzite. Ed infine il terriccio bruciato lasciato della lava frantumata ricopre per intero i fianchi alti del Monte che intanto si sono ristretti in cima, intorno al cratere che sprofonda irrimediabilmente.
C’è una sorta di cancello d’ingresso che anticipa una staccionata in legno che tutto lo circonda a bloccarci, nei pressi del cratere. Il nostro cammino finisce qui. Siamo impolverati ed anche un po’ stanchi. Siamo in movimento da questa mattina alle dieci. Ora sono le quattro pomeridiane. I nostri scarponi sono impolverati. Io ho con me il bordone di gelso consegnatomi in occasione dell’apertura di un cammino tra la valle del Calore, la via Appia e l’Irpinia, Marco si è invece avvalso delle più professionali bacchette metalliche. L’ultimo tratto, ma anche il percorso attraverso la struggente Valle dell’Inferno non avremmo potuto compierlo senza il loro aiuto. I nostri visi, esposti per due giorno di seguito al sole risplendono di un bel colore rosso che non lascia dubbi sulla nostra avventura.
Ci ritroviamo circondati da ragazzi e ragazze in abiti succinti, con sandaletti ai piedi e maturi turisti che sbuffano nelle loro magliette sudate. È ovvio che nessuno di essi è sceso nella Valle dell’Inferno e nessuno di essi è salito sui Cognoli del Monte Somma a vedere l’altra faccia del vesuvio. Li guardiamo felici. Un poco ci sentiamo dei privilegiati con i nostri zaino sulla spalla. Abbiamo visto cose che quelli non vedranno mai. Così devono parlare i nostri occhi perché un signore dell’Ente parco con tuta color terra e strisce fluorescenti ci accoglie sorridente. Ci guarda da capo a piedi.
“Avete dei bei scarponi pieni di polvere” ci dice. Noi facciamo cenno di sì con la testa e riponiamo, io il bordone, e Marco le bacchette. “Si vede che siete dei camminatori” ci dice ed arguiamo che i camminatori gli sono simpatici, meno, immagino, quanti salgono in pullman o in auto e arrancano sino alla staccionata a cui si sporgono, come se dovessero vedere leoni o altre bestie feroci apparire da un momento all’altro. Stefano, questo il nome del nostro interlocutore, ci accoglie con un bel sorriso.
Controlla i nostri biglietti d’ingresso alla zona del cratere con un’espressione del viso piuttosto rammaricata, come a dire, arrivassero sempre camminatori come voi innamorati della natura. Lui si vede che ama il suo vulcano. È un uomo maturo Stefano, forse una cinquantina d’anni ma ne mostra di meno. Fisico asciutto e viso abbronzato, si muove nel recinto oltre l’ingresso come un lupo prigioniero e noi dobbiamo evocargli pensieri di libertà. Ci accompagna au bordi del cratere.
“È un ellissi” ci dice “seicento cinquanta metri per quattrocento cinquanta. Il cratere si è rimpicciolito dopo l’ultima eruzione del 1944. C’erano gli americani allora a Napoli che però si era già liberata da sola. Il Vesuvio esplose. Il tappo che si era formato lungo la striscia chiara che vedete sulle pareti, saltò. La camera magmatica si svuotò ed il cratere collassò sprofondando nella voragine che potete osservare. Si creò fu una colonna di detriti e lapilli alta sei chilometri e distrusse due città Somna Vesuviana e San Sebastiano” ci dice tutto d’un fiato. È professionale ed appassionato Stefano ed è un piacere ascoltarlo.
“Il Vesuvio nella forma che vedete oggi” ci spiega rispondendo ad una mia domanda sul doppio monte e sul doppio nome, Somma e Vesuvio, è probabilmente frutto della terribile eruzione del 79. Prima il Vesuvio si presentava con un unico grande cono come peraltro sappiamo dall’affresco di Pompei conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.” Gli faccio cenno di sì. Conosco quell’affresco. Stefano si accovaccia e traccia sulla soffice terra un cerchio che rappresenta la camera magmatica collocata tra gli otto ed i dieci chilometri di profondità. Poi traccia una linea al di sopra del cerchio. È il condotto che veicola il magma in caso di esplosione. Infine disegna, in cima, un ampio triangolo isoscele a chiudere il quadro. Camera magmatica, condotto magmatico, vulcano.
“Nel 79 dopo Cristo l’eruzione provocò una colonna di ceneri e dettiti alta trentasei chilometri” scandisce lentamente guardandoci fisso negli occhi. “La colonna prodotta dal vulcano in Islanda qualche anno fa, bloccando aerei ed aeroporti per qualche settimana, fu di undici chilometri ”aggiunge tracciando con le mani in aria le due colonne.
“Fu tale la violenza dell’esplosione che sul lato esterno del vulcano si produsse una grande voragine, l’attuale cratere. Il monte collassò e del vulcano di duemila metri preesistente rimase l’attuale monte a milleduecento. Fu spaventosa quella esplosione. Da quell’altezza la cenere si diffusero dappertutto e seppellirono ogni cosa” conclude Stefano, cancellando con i suoi scarponi il disegno che mi ha fatto capire, perfettamente, la genesi dell’attuale Vesuvio. Condisce con molti condizionali le sue considerazioni sui rischi futuri a cui sono esposti gli abitanti che si assiepano intorno al Vesuvio.
Un milione a Napoli ed ottocentomila nell’hinterland. Ma da come parla mi pare di intuire un convincimento profondo che il Vesuvio si asterrà da nuovi epocali disastri. Certo chi governa deve fare la sua parte e la popolazione pure. Non si sfida impunemente un vulcano anche se questo, come nel cado del Vesuvio, è assurto a nume tutelare del golfo. Come San Gennaro e l’uovo di Virgilio custodito sull’isola di Megaride, nei sotterranei di Castel dell’Ovo che sprofondano sotto il mare. Ci congeda Stefano. Gli ha fatto piacere intrattenersi con gente che come lui ama la natura e rispetta il Vesuvio tanto fa impiegare due giorni e venti ore di camminata prima di arrivare ad osservarlo da vicino.
“Sapete che il danno più grosso in una eruzione lo provocano le ceneri che si accumulano sui tetti? Basterebbe munire le costruzioni a rischio di tetti spioventi invece di tetti piatti, per ridurre drasticamente quel rischio”. Con questo messaggio ci lascia definitivamente agitando la mano mentre si confonde con la folla di turisti che vanno defluendo. Ed io penso che sarebbe un’ottimo suggerimento per i politici, l’ultima riflessione regalatici!
Si sono fatte ormai le sei pomeridiane. Anche noi ci avviamo verso la discesa. Prima facciamo il giro della circonferenza del cratere osservando le sue pareti ed il fondo, sporgendoci di tanto in tanto a trattenerci in muto colloquio con esso e mi sembra che il Vesuvio ci ascolti come ascolta Stefano e quanti sanno che l’amore per la natura deve andare di pari passo con il rispetto. Il più profondo rispetto. Dalle rocce della parete più ad ovest del cratere, a metà costa, si innalzano dei pennacchi di fumo, le fumarole, come le chiamano qua. Si accosta una signora straniera. È vestita con un abito piuttosto leggero e dimessamente elegante e indossa delle scarpette basse, di gusto raffinato. Sul suo volto appare una smorfia di paura.
“It’s dangerous?” Mi chiede preoccupata mentre saluto il Cratere. Non so che rispondere. Non posso rifare il discorso di Stefano. Le sorrido. “Oh no” faccio “ it’s normal, absolutely normal!” Mi sembra la risposta migliore e nel dire queste parole do un ultimo sguardo al Cratere che mi sembra ammicchi soddisfatto. Il volto della signora si rasserena e tranquilla riprende il suo giro. Noi scendiamo. Abbiamo almeno altri tre chilometri da percorrere, questa volta lungo la via che mostra il volto noto del Vesuvio. Quello delle cartoline. E ne sono contento. Scopro qualche ginestra tra le fenditure antiche della lava ormai solidificata. La guardo soddisfatto come a ringraziarla a nome del Monte Vesuvio che di sicuro apprezzerà.