Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica un’ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è San Foca, località costiera del Salento con circa 374 abitanti, parte della marina di Melendugno, in provincia di Lecce. Una località ricca di vestigia storiche con al centro la millenaria Roca vecchia. Per le foto pubblicate, si ringrazia l’autore Carlo Petrachi per averle concesse per la pubblicazione di questo articolo (N.d.R)
A Sud la festa è il momento della quiete, del convivio e del lento andare. La domenica e il Natale, la Pasqua, il Corpus Domini e la ricorrenza del Santo Patrono erano festa. I contadini ed i pescatori indossavano il vestito buono per andare a messa ed a mezzogiorno vi era il pranzo con tutta la famiglia. La pasta asciutta con il sugo dei pomodori freschi se era estate, o con la salsa preparata nella bella stagione se era inverno, magari con un pezzo di carne al posto delle immancabili verdure e delle polpette di pane e formaggio impastate con qualche uovo o delle sarde e vope o sgombri a seconda delle stagioni. In occasione del santo patrono, ogni tre-quattro anni, il capofamiglia si concedeva il vestito nuovo che sostituiva quello ormai vecchio e già rivoltato e lo faceva per sé e per gli altri componenti, moglie e figli. Vi era la messa mattutina da onorare con il predicatore chiamato a tessere le lodi del santo con un grandioso panegirico, senza contare la processione pomeridiana alla vigilia e le luminarie con la banda che duravano per due giorni, a volte tre. E si usciva tutti insieme a passeggio per le vie del paese illuminate come fosse mezzogiorno, oltre che trasformate in fantasmagoriche cartoline di città lontane e mai viste. E poi la sera c’era la banda in piazza che suonava sulla grande cassa armonica, bella e splendente come e più di un vero teatro di città.
E sulla piazza vi erano i tavolini, quelli con le stringhe di legno ed i piedi di ferro che si aprivano e chiudevano alla bisogna come le sedie, ed i camerieri degli sparuti bar che andavano e venivano con gassose, gelati, qualche liquore di erbe fatto in casa e qualche dolce più o meno casalingo ché i torroni, lo zucchero filato, i mustaccioli e le mandorle con il miele e lo zucchero caramellato a formare la “cupeta”, tagliata a piccole barre per chi aveva denti ben saldi, quelle le vendevano alle bancarelle lungo la via che dalla piazza conduceva alla villa del paese. La piazza era un incanto. irriconoscibile. Le case intorno erano scomparse ed al loro posto erano apparse grandiose scenografie con migliaia e migliaia di piccole lampadine colorate. Era diventata piazza San Marco come a Venezia o Piazza San Pietro come a Roma o addirittura Parigi, Las Vegas e chissà cosa altro! Al centro la cassa armonica, l’orchestra per i paesani, chiusa in alto dalla cupola che la faceva sembrare una specie di immenso tabernacolo tutta saettante, come quello, di rubini e smeraldi, brillanti e diamanti da sorprendere e meravigliare. E contadini pescatori per una volta sognavano, seduti ai tavolini ad ascoltare le arie d’opera interpretate dalla banda, tutta fiati, piatti e gran cassa. La Traviata e Rigoletto. La Lucia di Lammermoor e l’Elisir d’Amore. La Tosca e Turandot. Il Barbiere e Guglielmo Tell… Ormai le conoscevano a memoria.
Avevano preso ad ascoltarle anche alla radio ed a viverle al cinema e facevano i confronti e, di loro, ci mettevano le parole che avevano imparato a mandare a memoria sulle note della cornetta che interpretava le parti del soprano, del bombardino e del trombone che echeggiavano quelle del basso e del baritono, del flicorno, dell’oboe e del corno inglese che proponevano gli acuti del tenore e così di seguito. Per la festa del Patrono che capitava sempre in estate, tornavano anche gli emigranti che poi erano tutti giovani, già fidanzati o pronti a fidanzarsi prima di ripartire per dare un senso al loro sacrificio fuori di casa ed anche alla loro attesa. Erano figli di contadini e di pescatori e contadini o pescatori essi stessi e quindi abituati a scandire la loro vita sui tempi della terra e del mare e in armonia con le stagioni. Un po’ come preparare la campagna in autunno e seminarci tutto quanto necessario in attesa di mietere in giugno o mettere a dimora le piantine intorno alla ricorrenza di San Marco in Aprile per raccogliere i frutti in estate o rammendare per bene le reti e procedere al rimessaggio delle barche pulendo la chiglia e incatramandola a dovere e controllando scalmi e cordame e la vela anche oltre ai remi e alle lampare. L’attesa per essi non era tempo sprecato. Era un tempo pregno di futuro. Era il tempo della preparazione. E anche con la vita funzionava così.
Si fidanzavano e partivano ma avevano il cuore in pace e la consapevolezza di lavorare fuori casa e fuori paese, in fabbriche buie e ostili, cantieri inospitali, città sconosciute e troppo grandi in mezzo a gente che li considerava braccia senza cervello o carne da macello, per guadagnare quanto bastava per farsi una casa al paese e mettere su famiglia. E la partenza, pur dura e piena di dolore, diventava sopportabile anzi piena di speranza se tu eri fidanzato. Devi avere un progetto nella vita come per i campi ed il mare e sapere che devi seminare e navigare per mietere e pescare e che devi lavorare per raggiungere uno scopo. Le famiglie ed il paese si erano riempite di nuovo e mentre la banda suonava, andava in scena la nostalgia e prendeva corpo l’idea di tornare e mettere in piedi un’impresa qui, magari anche una piccola flotta o un peschereccio di quelli che ti consentono di dormirci e di stare in mare per più di una notte. “Basta emigrare” proclamava più di uno. Avevano imparato il mestiere e gli stessi padroni, una volta conosciutili, li apprezzavano e li incoraggiavano nei loro propositi. Quanto al mare non avevano bisogno di maestri. Ed intanto Rigoletto pregava e minacciava, la Traviata si redimeva, Lucia impazziva ed il Barbiere se la rideva, Tosca si vendicava e Turandot finalmente si innamorava. E la conversazione procedeva a mozziconi per ascoltare le arie più famose e toccanti o entusiasmanti mentre la gente andava e veniva lungo le due strade principali che dalla piazza menavano alla villa o alla chiesa e che erano state trasformate, pure quelle, in altrettante gallerie luccicanti e variopinte, strabilianti e piene di bancarelle ricolme di tentazioni, dolciumi di ogni genere e piccole e grandi sorprese soprattutto per i più piccoli che avevano licenza di scorrazzare in totale libertà per quella sera. Poi apparivano le trombe d’argento e l’orchestra annunciava la marcia trionfale dell’Aida.
Quanti, tra i ragazzi, erano sciamati di qua e di là le riconoscevano e si passavano la parola…” stanno arrivando le trombe egiziane, presto, corriamo”. Anche i grandi tacevano. I solisti delle cornette si erano alzati in piedi ed avevano imbracciato le lunghe trombe luccicanti con le bandierine che sventolavano al di sotto dei pistoncini. Tre da una parte e tre dall’altra, tutte rivolte verso la piazza. In mezzo il Maestro a dettare il tempo ed il ritmo. Anche l’Orchestra si era zittita nell’istante immediatamente precedente quello in cui le trombe egiziane erompevano nei loro squilli trionfali. I più piccoli, avevano sospeso i giochi e si erano assiepati sotto l’orchestra. I grandi avevano smesso di parlare, anche i camerieri si erano fermati. Gli squilli echeggiavano dappertutto, alteri, ad annunciare il trionfo del vincitore. Le luccicanti trombe d’argento si davano il cambio, prima le une poi le altre, quindi procedevano insieme, ed ancora si sovrapponevano, alternandosi le une con le note brevi ed intermittenti, le altre con quelle continue, interminabili, che scaldavano il cuore mentre tu pensavi che sarebbe bello non finissero mai. E…ad un certo punto il maestro disegnava per aria un ampio cerchio con tutte e due le braccia a significare che bastava. Le trombe egiziane venivano riposte e la melodia veniva riproposta dall’orchestra per un’ultima volta prima che si scatenasse l’applauso liberatorio. I bambini riprendevano a correre di qua e di la. I camerieri tornavano a chiedere e portare ordini, i giovanotti a rimirare le bellezze femminili spuntate, d’incanto, nei paraggi a suggerire o consolidare l’idea di un qualche appuntamento prima di ripartire e le famiglie riprendevano a scherzare felici per una volta e dimentiche degli affanni, delle fatiche e delle disgrazie. Il santo patrono e la banda avevano fatto il miracolo anche quest’anno. E lo avrebbero fatto anche l’anno a venire. E nel frattempo grandi e piccini, a scuola o a bottega, nei campi, sulle barche e nei cantieri, al paese, al mare o all’estero avrebbero di tanto in tanto canticchiato le arie d’opera in attesa della banda, di nuovo, l’anno prossimo, questa volta con la fidanzata accanto, magari. Era bello il paese, laggiù in fondo all’Italia che finiva a Santa Maria di Leuca.
La lontananza, certo, come la nostalgia, ne aumentava il fascino. Era una specie di calamita che ti attirava mentre tu eri a duemila/tremila chilometri di distanza, in Germania, a Dortmund, un altro mondo dove non ci capivi niente. Quando ti parlavano sembrava che sputassero ordini. Una lingua dura, piena di consonanti che uscivano dalla gola senza alcun velo di dolcezza. Tutta un’altra cosa il dialetto di casa, che poi era una lingua…lingua nobile, diceva l’arciprete, dopo la funzione serotina, in prossimità del Natale allorquando si celebrava la novena della Madonna Immacolata. Sul sagrato della chiesa, egli, sapiente con il suo berretto quadrato di feltro nero e lucido in testa che lo faceva sembrare una specie di torre incrollabile con quella tonaca nera che tutto lo avvolgeva , si intratteneva con i paesani e parlava del più e del meno… si, si, il nostro dialetto, diceva, viene dal latino, prendi la parola crai e buscrai, domani e dopodomani in italiano, sono parole latine. Cras dicevano i latini per indicare domani, come noi ancora adesso. E piscipicula? Cos’è la lucertola se non un piscis in vicula. Era un pozzo di scienza l’arciprete. Quando intonava il tantum ergo in gregoriano era bellissimo con la pianeta tutta ricamata d’oro ed il grande mantello che gli scendeva sulle spalle pure quello, tutto ricamato d’oro sull’altare illuminato come non mai e pieno di fregi e pinnacoli intorno al tabernacolo con le statue di San Pietro e Paolo ai lati e la grande corona lignea splendente d’oro che scendeva dal soffitto ad ornamento del presbiterio. Il popolo schierato tra i banchi della chiesa sfolgorante di luci in onore della Madonna che annunciava il natale, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, rispondeva veneremur cernui, adoriamo in ginocchio…et anticum documentum novo cedat ritui, certo i contadini storpiavano come potevano, mica erano istruiti, però l’arciprete sul sagrato glielo traduceva di modo che quelli sapevano quel che dicevano cantando il Tantum ergo.
L’arciprete, quando se ne furono andati tutti, si rivolse a mio padre e disse “Toto, lo mandiamo al seminario tuo figlio, è intelligente come dice la maestra e così imparerà il latino pure lui” mentre quello correva di qua e di là con gli altri chierichetti. E così bambini e chierichetti crescevamo sicuri della grandezza della loro lingua. Latino, greco… altro che tedesco. Vicino al paese c’è n’era un altro di paese, anzi parecchi, dove la gente parlava ancora greco e l’arciprete spiegava alla gente che lo attorniava che da quelle parti prima di Roma e prima di Cristo erano arrivati i Greci. E raccontava della guerra di Troia e dei guerrieri achei, sottolineava ripetendo il nome a significare che era sinonimo di greci, che tornavano in patria ma il mare li disperdeva ed anche dei troiani sconfitti che scappavano e tutti arrivavano da queste parti. Fu così che i paesani, grandi e piccoli appresero i primi miti, dei ed eroi, Achille ed Ettore, eppure Enea capostipite dei romani, tutto per merito dell’arciprete. E crebbero con la convinzione che il loro dialetto era una nobile lingua e che vicino ad essi c’erano ancora i discendenti del glorioso popolo greco… Calimera, buon giorno, quelli ci scherzavano, dicevano che i paesani vicini avevano la lingua biforcuta e che quando volevano imbrogliarli parlavano greco ma in realtà, adesso all’estero, era tutto un sogno per loro in mezzo a quei tedeschi che davano ordini e parlavano sempre incazzati come se non riuscissero proprio a ridere. E loro, dodici ore in fabbrica, a buttare il sangue e sognare l’estate. Un mese di ferie e via due giorni in treno per tornare al paese. La piazza, le luminarie, la festa del patrono, la banda, i fuochi d’artificio… e poi finalmente qualcuno di loro si sarebbe deciso a dichiararsi con la ragazza che lo aveva guardato prima in chiesa e poi in piazza mentre l’orchestra suonava l’Aida. Qualche altro la fidanzata ce l’aveva già e tutti comunque avevano la famiglia e gli amici ed i paesani ad aspettarli. Lì faceva un freddo cane. Nelle baracche poi erano dolori.
Ti riscaldavi al pensiero che con quel che guadagnavi, dopo tre, quattro anni di sacrificio, potevi tirare su una casa, una barca bella grande tutta armata e magari tornartene per sempre e sposarti pure e farti una famiglia. Che poi al paese si poteva pure campare con il mare e le campagne e qualche fabbrica che cominciava a nascere, i frantoi dei padroni e quelli delle cooperative che pure cominciavano a spuntare come fiori nei prati e dove potevi macinare la tue olive così come i grandi proprietari facevano nei loro frantoi e c’erano le imprese di fabbricatori che costruivano case con i soldi degli emigranti e si potevano fare delle giornate anche se eri contadino o pescatore, senza tralasciare il fatto che se proprio era necessario potevi sempre tornartene a Dortmund con la fidanzata diventata moglie, questa volta. Lì avevi lasciato un ottimo ricordo: gran lavoratore e sempre sorridente e ti eri fatto più di un amico e addirittura qualche padrone era venuto sino in paese a vedere. C’era la possibilità di aprire una succursale insieme a qualcuno degli operai. Insomma qualche spiraglio c’era oltre la campagna ed il molo. Ma intanto bisognava lavorare… Ed il paese cresceva grazie alle rimesse degli emigranti e si trasformava… roba da non riconoscerlo un anno con l’altro. Il paese come me lo ricordavo io da bambino era piccolo anche se a me sembrava grandissimo. Le strade strette e piene di fossi correvano verso la piazza e la chiesa che stava un po’ discosta dalla piazza. Questa, dal canto suo, era tutta girata di lecci giganteschi e poi c’era una stradina costeggiata da una parte e dall’altra da lunghi filari di oleandri che fiorivano in continuazione, bianchi, rossi, fucsia, color arancio e rosa che facevano tanta festa.
Quella strada finiva dove cominciava la campagna. C’erano due grandi alberi di pini mediterranei, enormi e carichi di pigne che noi bambini aspettavano che cadessero per raccoglierle. Aprivamo i pinoli e ci incantavamo davanti al miracolo dell’albero in miniatura tutto disegnato in rilievo dentro alla delicata, saporita candida polpa. Un portone con un arco in pietra annunciava la masseria. I dintorni del paese erano pieni di masserie. La via per il mare ne era addirittura disseminata, il villaggio dei pescatori era tutto circondato. Erano grandi come castelli, quelle masserie, cinte di alti muri in pietra a differenza delle campagne dei contadini che erano disegnate dai muretti di pietra a secco. Si apriva un gran mondo dentro quelle masserie. Vi erano i fattori a custodirle perché i padroni abitavano in città vicine come Rudiae, la capitale della Messapia rinominata Lecce in epoca romana, oppure nella vecchia capitale del Regno, Napoli o addirittura a Roma, la capitale d’Italia come la chiamava la maestra a scuola. Alcuni abitavano anche nei paesi vicini. Ve ne era una lungo la strada che conduceva a mare che a me sembrava bellissima, a due piani con tondi blocchi di pietra aggettanti sul terrazzo e scolpiti alla foggia dei fusti di cannone per spaventare i male intenzionati, soldati sbandati, cristiani o saraceni senza differenza, e ladri o scapestrati. Una scala esterna con due rampe scandite da colonne panciute che si inseguivano una dietro l’altra e che confluivano sul ballatoio delimitato da una bella balaustra pure quella piena di colonne e capitelli che anticipavano l’ingresso e giravano per intero il fronte della costruzione. Superba ed elegante. A me sembrava un palazzo più che una masseria.
Quella scala la rendeva nobile oltre che leggiadra. Qualche volta ci ero salito aggrappato alla mano di mio padre che si recava ad incontrare il proprietario, un signore che a me sembrava già vecchio ma che in realtà aveva l’età di mio padre che, chissà perché invece mi sembrava giovane e pieno di forza. Don Giuseppe era magro ed alto, andava vestito sempre con un doppio petto scuro e portava in testa un cappello a larghe falde. Era un po’ claudicante ed era professore. Almeno così lo chiamava mio padre alternando il titolo con quello di don Giuseppe. Una volta in casa arrivava, gioiosa, rubiconda e allegra la moglie, donna Lisetta, che accoglieva mio padre come uno di famiglia e poi appariva una bimba curiosa ed impertinente che mi guardava insistentemente mentre io mi nascondevo dietro a mio padre. A me quella masseria sembrava una specie di reggia e la mia fantasia si perdeva ad immaginare quella bambina salire e scendere dalle scale che dal cortile conducevano sopra. Sul lato opposto vi erano dei caseggiati bassi disposti longitudinalmente. Vi erano depositi e stalle. Il portone di accesso dalla strada era sempre aperto ed i contadini che a sera tornavano dalle campagne al di qua del mare in bicicletta o a piedi trovavano rifugio in quegli androni allorché venivano sorpresi dalla pioggia che talora era battente e fastidiosa, schiaffeggiata dal vento proprio come in una bufera. E quella masseria era un’oasi accogliente. I contadini si riparavano nell’androne più grande dove al centro c’era un grande tavolo in legno girato da panche che erano poggiate pure lungo i muri che lo giravano per intero. Si riempiva completamente a volte quello stanzone. I contadini vi si rifugiavano in attesa che spiovesse e parlavano tra loro del più e del meno. Io guardavo la grande masseria di fronte con quelle scalinate che montavano in alto e conducevano nelle stanze del palazzo dove regnava una piccola principessa. Oltre il portone, al di là della strada-tratturo che divideva la proprietà, si apriva l’altra parte della tenuta. Anche lì vi era un grande caseggiato affacciato su un’aia. Al centro vi era un pozzo dove i contadini di passaggio si fermavano per dissetarsi. Vi era sempre un secchio attaccato alla corda che scorreva lungo la carrucola in cima al letto incastonato sulle colonne di pietra ed un altro sul lato opposto e i contadini tiravano sù quello pieno e mandavano giù quello vuoto e si dissetavano bevendo direttamente dall’orlo del secchio di latta. Poi una volta spiovuto o bevuto, ciascuno tornava per la sua strada. Io tornavo a casa mia al paese nella corte, issato di traverso sulla canna della bicicletta che mio padre spingeva con la forza delle pedalate. Poi nel giro di qualche anno sembrava fosse passato il diluvio.
La grande masseria incantata rimase deserta. I muri diroccati. Pure mio padre era morto e don Giuseppe con una giovane ragazza che io riconobbi per la bambina della balaustra, vennero a rendergli omaggio. Le masserie intorno al paese erano scomparse, chiuse, le bestie vendute al macello. La gente se ne era andata all’estero o a nord a far soldi che al paese si puzzava di fame e nel giro di un decennio, due, il paese non lo riconoscevi più. Io pure me ne ero andato. L’auspicio dell’arciprete si era tradotto in realtà, almeno per quanto riguarda il latino e il greco. Ma quando dismisi vocazione e tonaca e, a distanza di qualche anno, tornai non era più lo stesso. Tutto cambiato. Le strade asfaltate. Le masserie scomparse, ovunque case nuove, financo un palazzo alto di quelli che si vedono in città, nel vecchio centro storico, a sfregiarlo. Tutto era nuovo, frutto del miracolo economico che aveva distrutto la bellezza antica ormai ripudiata perché sapeva di fatica, povertà, dolore e vergogna. Case si succedevano a case. Ben squadrate ed intonacate o addirittura rivestite con piastrelle e maioliche. La vecchia nobile pietra era scomparsa, finita in discarica o sui tratturi di campagna o nascosta dietro intonaci graffiati o rivestiti di marmi e ceramiche. Le masserie prossime al paese abbattute e i terreni trasformati in suoli edificatori. Quelle lontane abbandonate, con i campi lasciati alla macchia. Era rimasta solo la festa di paese a conservare l’eco del passato. Anch’io me ne ero partiti. Andato a studiare nella grande città, Napoli, la capitale del regno. Ero anche tornato, dopo lungo esilio, scontrandomi con una realtà che ormai non riconoscevo. Così me ne ero andato a vivere nella campagna di mio padre e di mia madre. Il luogo prediletto della mia infanzia. Vi era una vecchia casa che avevo riattato ed un giardino che avevo fatto crescere tra olivi e carrubi. Per la verità nemmeno il vecchio villaggio riconoscevo più. Il villaggio abitato dai pescatori con la torre, il porto e le barche che si disponevano al di là della strada sterrata lungo la quale quelli stendevano le lunghissime reti una volta tornati dalla pesca per rammendarle allorquando i delfini, loro nemici giurati, le squarciavano facendo strage del pescato e rendendo vana la fatica notturna.
Il vecchio villaggio dei pescatori con i contadini che abitavano più all’interno e dove, tutti, pescatori e contadini si ritrovavano la domenica mattina per la messa celebrata nella chiesa ricostruita ad inizio del secolo passato e che si stagliava proprio dirimpetto alla torre di guardia dove ciascuno scrutava l’orizzonte per decifrare i segreti del tempo, pioggia o vento, bel tempo o burrasca, non c’era più. Adesso si vedeva un tessuto di case , interminabile. Del vecchio porto non era rimasto nulla salvo la torre, anche quella ben intonacata, assurdamente, e trasformata in uffici. Un lungomare costeggiava la falesia. Le spiagge brulicavano di gente. Gli stabilimenti balneari avevano reso monotono ciò che da prima era stato il regno del ritrovarsi in mezzo ai colori, alla fantasia, all’improvvisazione. Anche la piccola piazza del vecchio villaggio aveva cambiato fisionomia. Bar e ristoranti, negozi e brulichio di tanta gente sconosciuta. I pescatori erano ormai scomparsi. Erano sopravvissute poche barche attraccate in un angolo del grande porto turistico che aveva spianato dune e cancellato baie, ingoiato scogli e tutta intera la memoria di quei luoghi. Quest’ultima si era rifugiata nella banda, nella cassa armonica e nella festa che, come un tempo gli emigranti, tornava ogni anno. Per il divertimento dei bagnanti questa volta. Ma era già tanto. E fu proprio l’eco della banda che suonava sulla cassa armonica tra le luminarie in mezzo alla piazza brulicante di gente che mi strappò al desiderio di raggiungere in fretta l’angolo della mia campagna dove ancora era possibile ascoltare il vento ed il mare. Era davvero un miracolo. Il rumore urbano, gli schiamazzi ed il via vai della marina, scomparivano d’incanto in quell’oasi antica. E restava la voce del mare e il discorrere del vento che si raccoglievano intorno alla torre e da lì spinti dalla tramontana leggera giungevano sino a me. Ma quella sera mi fermai sorpreso dal miracolo della memoria nei pressi del palco che adesso aveva sostituito la cassa armonica e mi immersi nella magia della banda. Il villaggio era San Foca, costa adriatica della Messapia meridionale. Il paese era Melendugno, a circa cinque chilometri dalla costa. Il paese vicino dove si parla greco si chiama Calimera. Le luminarie, le bancarelle, il via vai, ma soprattutto il miracolo della banda era quello di tanto tempo fa. Anche se la cassa armonica era stata sostituita da un palco… forse per lasciare spazio a qualche concerto contemporaneo. Il turismo ha le sue esigenze e vanno rispettate. Dicono.
Festa di Paese
Cammino distratto
è sera ormai
Orione chiama
La notte incombe
domani è già prossimo
i campi attendono
e gli impegni premono
Il vento di tramontana rinfresca l’aria
e consiglia la strada di casa
ma sulla attigua battuta radura
un’orchestra di fiati è pronta
sul piccolo palco si piazza
la cornetta in piedi
attende il segnale
e intanto di fiato riempie i polmoni
e spinge il diaframma
Attaccano i suonatori
le tube segnano il passo
clarini e oboe la melodia intonano
corni e bombardino le note sottendono
La direttrice leggiadra
sul palco danzando leggera
attende il momento
la cornetta è pronta
… ma… ma se mi toccano…
dov’è il mio debole…
una vipera… si una vipera sarò
Canta
Non si ferma la cornetta.
In piedi il solista spinge lo strumento
sotto il sapiente sguardo
della suadente direttrice
canta la cornetta
la voce par di sentire
in mezzo agli archi
del soprano superbo
il silenzio impera
la gente attende
con il solista si inerpica
segue le braccia che il tempo scandiscono
mentre i lunghi capelli al vento
in una fata trasformano
la bella direttrice appassionata
e tutti fan parte del sogno
Il sogno della festa di paese
illuminata dalla luna ormai piena