Acquaviva di Marittima. Il musicista ed il mare

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica un’ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è Acquaviva di Marittima, nel comune leccese di Diso, situato poco a Nord di Marina di Marittima e ad un passo da Castro Marina, il mitico approdo di Enea dopo la disperata fuga da Troia. (N.d.R)

 

25 agosto 2023

Acquaviva di Marittima.

Costa Adriatica Meridionale Storia di un musicista che incontra il mare

 

Vi è un luogo, lungo la costa adriatica a sud di Otranto, che corre verso Oriente e dell’Oriente conserva l’eco misteriosa ed elegante nelle architetture dei palazzi con le cupole leggiadre, le bifore e le trifore dalla forma moresca, le porte incorniciate da archi anch’essi moreschi e le terrazze trapunte di logge e colonnati come merletti di filigrana. Santa Cesarea è disposta lungo il ripido costone che precipita in Adriatico con scogli aguzzi e frastagliati come cime montuose miniaturizzate. Da quelle parti il mare sa di zolfo e se ti tuffi tra le onde accoglienti dagli scogli sporgenti puoi sentirne l’afrore tra le narici, le tue papille lo assaporeranno e la tua gola ne tratterrà il gusto acidulo intriso di sale. Se poi ti immergi e, sospendendo il respiro, riesci a scendere sino in fondo potrai spalmarti di una fanghiglia amica densa e scura e riemergere come il dio Nettuno con le braccia levate come fossero il suo tridente. Potrai nuotare, lasciarti andare e scandagliare la costa che nasconde grotte ed anfratti e inebriarti di visioni mai uguali e di panorami sempre inconsueti. Pinete superbe e interi boschi di lecci e di macchia mediterranea custodiscono l’impervio costone e falesie ripide come un pezzo della montagna del purgatorio lo incorniciano. Sentieri invisibili lo percorrono. La Grecia è lì di fronte a te solo che tu volga lo sguardo. L’Oriente moresco qui ha lasciato i suoi dolci intrisi di miele, simili alle rose del deserto e i suoi piatti di pasta fritta da cui è nata molta cucina mediterranea anch’essa. Le stradine di Santa Cesarea si dipanano tra piccoli dossi e dolci avvallamenti che incorniciano le acque e accarezzano il monte che si inerpica dietro il paese ad osservare la magnificenza di questo sperone che corre verso est prima di piegare a sud verso Santa Maria di Leuca dove lo Ionio incrocerà l’adriatico in un tripudio di bianca schiuma. Se poi ti lasci alle spalle Santa Cesarea e ti incammini seguendo la pineta e la falesia, la macchia e la stretta via, incontrerai un rosario di piccoli villaggi un tempo regno dei pescatori e dei contadini che in basso custodivano la vita sul mare ed in alto quella nelle campagne. Diso e Ortelle, Vitigliano, Cerfignano, Andrano, Poggiardo ti racconteranno la storia di popoli giunti da lontano e di gente che qui, nella terra tra i due mari, ci viveva da sempre.

Una storia di profughi e di conquistatori divenuti difensori della Patria Messapica con quanti qui vi erano nati. Il Mediterraneo era il mare di tutti e tutti in esso si riconoscevano. L’insenatura di Porto Badisco, appena lasciata Otranto, ti annuncerà Santa Cesarea Terme. Son posti amati dall’umanità raminga sin dalla notte dei tempi. Qui giunsero i Sapiens da Oriente e vi lasciarono tracce sufficienti per ricostruire il loro percorso all’alba dei tempi umani che li aveva portati a scacciare, dicono alcuni, ad assorbire, fondendosi con essi, i Neandertal, dicono altri. Qui lungo la Falesia potrai incontrare grotte profonde un tempo abitate da Neanderthal e Sapiens e imbatterti in specie vegetali che son giunte a noi dal Neogene. E scoprirai una leggenda che vuole imprigionata nel tronco del lentisco, qui capace di crescere sino a diventare albero, una donna sapiens condannata ad espiare il suo peccato di tradimento per essersi unita ad uno degli ultimi Neanderthal superstiti. Io stesso avevo visto quel miracolo di lentisco riprodottosi sino a giungere sino a noi. Nel suo tronco le forme del corpo femminile si dispiegavano formose quanto perfette. Era la testimonianza della fusione dei due ceppi dell’umanità che qui si incontrarono, raccontava il giovane archeologo suscitando curiosità e desiderio di sognare. Lasciata Santa Cesarea incrocerai porto Miggiano, osservato da Enea prima del suo approdo a Castro dove un gruppo di suoi commilitoni, stanchi di navigare, si fermarono avendolo individuato come il posto giusto per ricostruire in alto l’acropoli di Ilio e sulla costa il tempio di Athena.

È davvero piena d’incanto questa terra pietrosa piena di pini, lecci e querce vallonee, di olivi, di fichi, di peri dai piccoli pomi rossi e affusolati e mele verdi insieme alle mele cotogne, mandorli, fichi d’India e vigne che si fan strada tra le pietraie e colonizzano la scogliera e si protendono verso il mare mentre alle spalle scandiscono le piccole alture che qui chiamano serre e che si elevano tra massi possenti, pietre ovunque presenti e rocce calcaree che nascondono cavità amiche, selle e depressioni, senza mai diventare monti, accontentandosi di innalzarsi quanto basta ad osservare dall’alto dei loro duecento metri più o meno una sorta di paradiso sconosciuto, da sempre rimasto ai margini della civiltà a custodire con le torri di guardia il pensiero meridiano, le leggende e le abitudini della gente legate al rispetto dei tempi della natura ed alle stagioni. Non cercate spiagge da queste parti. Qui dovete entrare in sintonia con il mare profondo, con la falesia alta e contrappuntata da molti aculei che ti costringono a rallentare il passo, lungo i sentieri scoscesi e tra le rocce ovunque affioranti. Seguirete, senza rendervene conto i passi dei Neanderthal e dei Sapiens, dei Messapi e dei Greci, dei Troiani e degli Arbëreshë, dei Balcani, dei Normanni, dei Bizantini e dei Saraceni e di quanti dalle fredde pianure del Nord cercavano latte e miele nelle contrade mediterranee.

Vi imbatterete nelle abbazie basiliane e nei frantoi ipogei da quelli realizzati, nelle cripte affrescate e nelle chiese di campagna, nelle masserie e nelle fortificazioni antiche e ovunque potrete ascoltare la voce del mare ed il vento che con essa si mischia diventando musica e poesia se solo non avrai fretta e saprai rallentare il tuo andare, tendere l’orecchio, scendere lungo gli impervi costoni fino ad immergerti nelle acque spesse che qui mostrano un blu cobalto cosparso dei lapislazzuli più preziosi che ti incanterà e fermerà il tuo fiato. Se poi, da queste parti, vorrai avventurarti prima che sorga il sole, beh allora ti fonderai con esso e proverai cosa possa significare essere parte della natura che ti circonda, guizzare trai bagliori della luce che sale, prender forma con il buio che scolora o perderti nell’incanto nel mattino che rende mansueto il sole nelle acque che si tingono d’arancio prima di essere solcate da strisce d’oro man mano che il sole da Oriente fa capolino e si avvia a percorrere il cielo in tutta la sua grandezza. E lì che anch’io mi sono recato una notte estiva con una mia compagna d’avventura tornata a Sud dalle brume nordiche dove la vita, e le scarse occasioni di lavoro di queste terre, l’hanno condotta. Marina di Marittima. È quella la meta. È lì che la notte tra il 23 ed il 24 di agosto del 2023 segnato dalle bizzarrie di un clima impazzito, alle tre di notte ci dirigiamo, percorrendo la vecchia statale litoranea che attraversa il tratto costiero delle serre disseminate di rocce bianche che si innalzano verso l’interno con una serie di terrazze che si arrampicano alternandosi con profonde depressioni caratterizzate da una terra rossa e lucente evidentemente ricca di minerali.

D’altronde proprio alle porte di Otranto, in località che lì chiamano delle Orte, disseminata di scogli che degradano verso il mare tra grumi di macchia mediterranea, vegetazione marina e sporadici intermezzi di tamerici, vi è il colle, che un tempo ospitava la cava di bauxite, risplendente di un vibrante colore rosso esaltato dalle acque del piccolo lago formatosi sul fondo e nel quale quello oggi si rispecchia. Da qui la strada si inerpica attraverso una serie di curve ardite che tuttavia non diventano mai tornanti perché da queste parti il territorio si districa ad est tra le serre che annunciano il mare e ad ovest tra la campagna che, a sua volta, si dipana tra sali e scendi che non diventano mai valli o colli ma ne riecheggiano soltanto la fisionomia in un gioco di prospettive che tuttavia diviene suggestivo e attraente come un paesaggio ondulato e variegato al pari di quelli che puoi ritrovare sugli altipiani dei massicci montuosi con la differenza che qui tutto corre verso il mare ed anche se ti spingi verso l’interno dove le serre raggiungono talora altezze più consistenti, il mare è il costante riferimento ed il magnete che tutto attrae. Così ci arrampichiamo leggeri con l’auto che non fa fatica, tra muretti a secco, fichi d’india che sporgono sul ciglio della strada, orti con alberi di fico lussureggianti carichi di frutti che occhieggiano tra le grandi foglie verdi generosamente dispiegate come mani aperte e mandorli carichi di gusci prossimi ad aprirsi e noci anch’essi tempestati di piccoli gusci dal colore verde smeraldo.

Qualche olivo sopravvissuto alla strage della xilella si sporge anch’esso in direzione del mare in attesa di tornare a risplendere. Un gregge di bianche ville e villette che si arrampicano sul costone appare sparso di qua e di là e qualche grumo di case minuscole e basse, lungo la statale, addossate le une alle altre, a formare il cuore dei villaggi, un tempo, abitati da pescatori-contadini che di notte scendevano nelle insenature ad armare le flotte delle lampare e di giorno salivano verso il monte a coltivare le striminzite campagne che tuttavia erano piene di ogni ben di dio frutto della biodiversità mediterranea, notoriamente ricca, tanto da essere ritenuta, da scienziati ed agronomi, la più generosa e variegata dell’intero pianeta. Non per nulla qui vivono, come tra le isole greche, le coste del vicino Oriente e le terre africane, i centenari. Ci districhiamo così tra baie ed approdi che io intuisco, per antica consuetudine con questi luoghi, essendo tutto intorno buio pesto. Ormai le giornate si sono accorciate ed il sole non sorge che dopo le sei. Ma noi avanziamo nello stretto budello silenzioso e deserto, bellissimo. Ci siamo arrampicati dapprima lungo una serra al cui fondo si apre Porto Badisco luogo di pescatori e contadini eredi di greci, cretesi, troiani che qui giunsero mischiandosi con i Messapi a seguito della guerra di Troia che aveva provocato un vero cataclisma nel Mediterraneo tra l’Egeo, l’Ellesponto, i Dardanelli ed anche lo Ionio, l’Adriatico ed il più lontano Tirreno. Qui si dice fosse approdato anche Diomede e Idomeneo tutti in cerca di Patria avendo perso la propria dopo aver distrutto la potente e gloriosa città di Priamo. Enea vi lasciò dei compagni stanchi di navigare mentre egli proseguiva in direzione dell’Africa, verso Cartagine dove la inconsapevole Didone lo stava aspettando per la sua rovina.

 

Nel ventre carsico delle serre vi sono cavità sacre e templi dei primordi dell’Umanità che sulle pareti han lasciato testimonianza del loro essere e divenire. La Grotta dei Cervi è nelle vicinanze, protetta dall’oscurità e ormai da tempo inibita all’acceso degli uomini contemporanei che in altri tempi han rischiato di devastarla cancellandone addirittura la memoria. Là dentro si srotola la storia dei primi sapiens che avevan preso coscienza e consapevolezza di sé istoriando le pareti con incisioni e pitture, roba da far restare estasiati ed a bocca aperta quanti le han viste al naturale e perfino chi le ha guardare solo in immagini fotografiche e che han fatto ricredere i contemporanei sul loro monopolio recente dell’arte e della poesia. Lì ci sono fissati i primordi di ogni divenire passato, presente e futuro, al pari delle sibille, dei santuari rupestri e delle cripte della prima Cristianità che nelle cavità della terra aveva depositato il suo anelito di immortalità prima di innalzare cattedrali e diventare testimone del fascino dell’onnipotenza divina che gli uomini vollero emulare sino a contemplare la deriva all’ autodistruzione dipanarsi davanti ai propri occhi incapaci di fermarla. Così scendiamo e saliamo in questo improvvisato pellegrinaggio in cerca dei valori ancestrali e dei primordi della nostra essenza, sperando magari di trovarne traccia da qualche parte dentro di noi oltre che intorno a noi, grazie alla notte che annulla brutture e devastazioni che invece appaiono, qua e là, ben accatastate nella luce del giorno. Stiamo superando Capo Palascia dove il grande faro segnala ai naviganti la punta più orientale della penisola italica che qui diventa Oriente. Benvenuti in Grecia avvertono i gestori dei cellulari ossequiosi, falsi e servizievoli. Ma qui è davvero Oriente. Qui è davvero Magna Graecia. La natura è la stessa.

Il biancore delle case anche e l’azzurro del mare e del cielo e la trasparente, accecante luce meridiana e la potenza delle ombre, l’incanto della notte non violentata dalla inutile elettricità che altrove ha cancellato la via lattea e gli orizzonti infiniti. La serra sulla cui parete che precipita a mare si innalza il faro della Palascia è un’oasi ancora incontaminata dove tutto questo, se lasci la strada, l’auto, e ti incammini lungo i ripidi sentieri che rotolano a mare, ancora lo puoi trovare. Ci siamo lasciati, appena qualche chilometro prima, anche i ruderi dell’abbazia di San Nicola di Casole che sorgeva verso il monte oltre la città. Da lì i monaci giunti da Bisanzio dominavano la valle dell’Idro, Otranto ed il mare, ispirando preoccupazione e gelosia alla chiesa di Roma per la loro sapienza e la loro potenza al punto da far trarre al vicario di Cristo un sospiro di sollievo alla notizia della distruzione del maestoso complesso ad opera dei Turchi Ottomani di Ahmet Pascià che, nell’agosto del 1480, il 14 agosto del 1480, aveva preso Otranto lasciata al suo destino ed alla sua ora di gloria e di morte dai principi cattolicissimi e dal papa cristiano d’Occidente. Stiamo adesso attraversando un pietroso altopiano da dove si domina tutta intera la costa sino ad immaginare Castrum Adriaticum con il Tempio dedicato dai fuggiaschiTroiani a Pallade Athena, e Gagliano che domina il baratro del Ciolo che si incunea come un fiordo nella soprastante serra e dove i contadini-pescatori ricoveravano le loro barche, Novaglie e via via sino ad immaginare Patú con il sito megalitico delle cento pietre, e raggiungere Santa Maria di Leuca con il suo santuario de finibus Terrae ed il faro a segnalare la confluenza o lo scontro tra Adriatico e Ionio.

La strada prende a scendere ripida, quasi a precipizio, e invita alla prudenza allorquando imbocchiamo la serra di Santa Cesarea, nostra destinazione. Scendiamo tra due pareti di roccia, questa volta sormontate da rigogliosi boschi di lecci e pini marittimi oltre che punteggiata da una lussureggiante striscia di macchia mediterranea che si sporge da tutte le parti, verso il monte e verso il mare. Qui resistono specie vegetali giunte direttamente dall’epoca dell’ultima glaciazione, quella del Neogene che segnò l’estinzione dei Mammut e la fine dei Neanderthal con l’avvento di animali veloci che esaltavano l’agilità dei Sapiens longilinei e strutturati per dar loro la caccia a distanza con archi e frecce oltre che con giavellotti. All’ultima curva si apre l’abitato di Santa Cesarea che da un lato si inerpica verso il monte e dall’altro precipita verso il mare. In mezzo la strada litoranea che qui diventa corso lastricato di basolati bianchi e lucenti e si allarga sino a diventare piazza e marciapiede su cui si aprono negozi, bar e ristoranti, la Chiesa ed il Municipio e, più in alto, la grande fabbrica dell’albergo delle terme. Dall’altra parte degradano le terrazze che scendono a Mare, nascondono lo stabilimento delle acque e dei fanghi sulfurei e mostrano le ville moresche dominate dal superbo palazzo che rimanda a Bagdad, a Sharazade, alle Mille e Una Notte dove, come qui, abita l’Oriente. Dalla notte dei tempi. È sempre buio. L’illuminazione del corso è discreta, i bar pullulano di gente ma l’atmosfera è rilassata. C’è aria di attesa. Persone con sdraio ben chiuse, cuscini ed asciugamani tra le mani si avviano verso la scarpata da dove la costa guarda a mare trattenuta dai terrazzamenti prima di scivolare sulla scogliera irta di pinnacoli e dirupi, tutti a misura d’uomo, niente di spaventoso.

Anche i ragazzi dei bar si avviano da quella parte. Vi è un vasto terrapieno disseminato di balle di fieno. Un muretto di pietra calcarea lo chiude. Nel mezzo, delle scalette conducono ad un secondo terrazzamento più in basso e ad un terzo. Tutti pullulano di gente. Di ogni età. Prevalgono i ragazzi ma non mancano adulti ed anche anziani. Uomini e donne. Sono ormai tutti in attesa. In fondo una specie di molo ligneo che si protende al di sopra della scogliera e si ferma con una piccola rotonda proprio dove finisce la scogliera ed inizia il mare. Vi è un piano forte a coda e sopra poggiato deve esserci un sintetizzatore elettronico. Il giovane musicista, abbigliamento informale, è pronto per il concerto. Solleciterà il giorno in attesa del sole che sorgerà dalle parti di Punta Palascia prima di mostrarsi a Santa Cesarea e guizzare nello specchio di Acquaviva di Marittima. Prendiamo posto su una balla di fieno ancora libera. Il buio ci avvolge. Si direbbe che il Giorno sia in ritardo. Poi il cielo rivela i primi lattiginosi bagliori. È rimasto solo Giove luminoso come una lampadina accesa, il resto è tutto un chiarore appena sbiadito. Il pianista si è seduto sullo sgabello.” Buona notte” dice sornione e poi “ proviamo a svegliare il sole con il nostro buon giorno” e inizia il suo concerto.