L’altra faccia di Matera… …dove la vita è tornata a nascondersi nella notte dei tempi attuali.

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica un’ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è la città di Matera in Basilicata, con circa 59000 abitanti e già capitale della cultura. Una città piena di fascino e che è balzata all’attenzione non solo nazionale ma anche mondiale, ricca di memorie storiche e di segreti. (N.d.R)

Matera come vorresti che fosse e Matera come non vorresti mai che fosse diventata … un po’ come la nostra storia ed anche come quella del mondo che ci assomiglia parecchio. Ti affacci al belvedere appena al di là dell’acquedotto del Palombaro sulla piazza presidiata da un emigrante in attesa di andarsene e ti incanti davanti alla faccia di dio impressa tra i sassi come il volto di Cristo sul lenzuolo della Sindone. Perché solo lo sguardo di dio poteva fondere insieme bellezza e degrado, orgoglio e ignominia, eternità e assenza. Tutto mischiato in quei sassi, in quelle gravine, in quelle grotte, in quei vecchi tuguri chiusi, nascosti, risanati, trasformati, tamponati, scomparsi, che han coltivato l’umanità, a dispetto della storia e in quelle grotte-chiese, eremi, conventi che han custodito la bellezza e con essa la speranza nonostante l’abbrutimento di tempi troppo lunghi e bui. Poi scendi lungo le ripide scalinate un tempo viottoli-torrenti che con le piogge diventavan fiumare che correvan giù a precipizio verso il fondo del Paradiso popolato da stormi di uccelli migratori, variegata e variopinta flora e fauna mediterranea e imprigionavan condadini e artieri, falegnami, conciatori, sartori, carrettieri, panettieri, fabbri-ferrai in casa, ché, i pastori, quelli, giravan per la Murgia e si riparavan nelle sue cavità, fossero esse chiese, cripte, conventi o soltanto grotte.

I fumaioli tradivano la loro presenza con quella selva di pennacchi bianchi che si mischiavano con l’umido velo dell’aria stagnante o il nevischio più o meno rado o abbondante e contrastavano l’oscurità della notte contrappuntata, a sua volta, dalle fiammelle delle lucerne poste fuori dall’uscio, in alto, dentro ad una piccola nicchia ricavata sul muro esterno e che, come tante stelle lontane, illuminavano le profondità di quegli abissi come fossero specchi che riflettevano il cielo infinito disposto là sopra con la via Lattea e le costellazioni. L’aria profumava di legna arsa e i lumi a petrolio illuminavano all’interno la sera degli abitanti. Sui ponticelli che scavalcavano i viottoli-torrenti la gente si affrettava per tornare a casa, passare da un lato all’altro, portare fascine per alimentare il fuoco mentre forme di pane e casseruole ricolme di pietanze familiari passavano da una casa all’altra. I ragazzi scorrazzavano imperterriti sino all’arrivo del buio, saltando tra un dirupo e l’altro, tra un viottolo e l’altro, tra un sasso e l’altro. Poi calava la notte e regnava il silenzio, un silenzio gravido di voci sommesse, di brusii, di crepitii, di cigolii, di porte che si aprivano e si chiudevano. C’era vita.

Dappertutto a Matera. Una vita misera certo e piena di sofferenze, frustrazioni, domande, domande a volte rassegnate, a volte rabbiose, ma era vita vera con gente capace di gioire e di soffrire, gente che nasceva e che moriva, che magari si innamorava pure e comunque generava altra vita. Le famiglie eran numerose… sei, otto, nove e anche undici figli, tutti insieme, maschi e femmine, grandi e piccoli, in quei tuguri ricavati dentro alle pareti dei sassi, trasformate in case, povere case e in stalle per gli animali. Ci vivevano in ventimila, trentamila anche nella vecchia Matera che precipitava nella gravina e si innalzava su, per quei pezzi di montagna che a Carlo Levi erano sembrati enormi imbuti di pietra rovesciati come l’inferno dantesco. Caveoso e Baresano erano i nomi di quelle montagne e tra i due lo sperone della Civita che li teneva lontani e si innalzava come un’acropoli su cui sorgevano palazzi e chiese, prima di precipitare nella gravina. La Cattedrale si ergeva magnifica nella sua cornice romanica e i monasteri superbi facevan da contrappasso alle umili cripte rupestri.

Le dimore aristocratiche dominavano la città e si affacciavan sulla gravina e, presuntuose, irrispettose, orgogliose, facevano il verso ai picchi dei sassi brulicanti di misera unanimità. Tutto si mischiava e si teneva…un tempo. Anch’io come Carlo Levi ne rimasi stupefatto, sopraffatto, addirittura incredulo la prima volta che ci arrivai. Immaginavo la vita come si doveva dispiegare davanti ai suoi occhi che si chiudevano stravolti da tanta improvvisa, inconcepibile bellezza e sopraffatti da quell’incontenibile sofferenza e dalla vergogna per quella nazione che aveva dimenticato il suo presente inseguendo un passato inesistente contrabbandato per futuro. Doveva dipanarsi di certo una vita, lì dentro, che arrancava ma che non rinunciava alle sue prerogative e, chissà, nemmeno alla voglia del suo domani. Essa attendeva che la notte finisse, che il sole sorgesse che la nuova stagione riscaldasse i viventi. Adesso mi aggiro con Elisa che qui vive, superstite tra gli ultimi superstiti, con Pio, suo marito, a rammentare a tutti che quella che stiamo attraversando non é una sorta di Disneyland costruita da affaristi e speculatori in cerca di vacanzieri e turisti nostalgici dei tempi andati.

É proprio la città dei sassi, venuta su dalla notte dei tempi, tra grotte e rocce friabili, facili da scavare e trasformare in case, tuguri, ricoveri, quel che volete, tutta roba comunque satura di vita, passioni che riempivano il tempo presente, un presente maledettamente duro ma che era lo spaccato irrinunciabile dell’avventura umana. Attraversiamo il grande anello che circumnaviga la gravina e lambisce i Sassi consentendo alle vie interne di avere un facile sbocco che addomestica i salti disseminati di massi e rocce tra le interminabili teorie di faticosi gradoni. Hanno spianato tutto quel che c’era da spianare, mi racconta Elisa, proprio allo stesso modo in cui a Roma spianarono i Fori Imperiali per creare l’arteria che tuttora li attraversa. Era il 1930, tempo di regime fascista e di decisioni senza opposizioni. Non mancarono gli scempi, in compenso Matera ed i Sassi con l’acropoli della Civita divennero più abbordabili per i muli, gli asini, i carretti ed anche per le prime automobili che salivano verso le residenze aristocratiche o ecclesiastiche che fossero. Dappertutto adesso fan mostra di sé alberghi di lusso e alberghi diffusi, case vacanze, bed and breakfast nel nuovo esperanto, ristoranti e bar, locali e locali, tanti locali. Tutta roba per turisti affannati in cerca di requie o requiem, fate voi. La casa di Elisa e di Pio è l’ultima casa abitata, con balcone affacciato sulla gravina. Con tanto di bandiera palestinese a rammentare i troppi guai dell’Umanità. É circondata da locali… locali chiusi. É febbraio. Fa freddo.

Anche i locali si prendono una pausa. Ogni tanto incrociamo dei gruppi in fila ordinata o meno ed una guida che racconta, racconta mentre lo sguardo degli astanti scivola di qua e di là magari cercando gli epigoni scomparsi di un popolo di formiche intento a vivere con gli asini ed i muli, le greggi ed i cani pastore… Di là, dall’altro lato della gravina disseminata di grotte, di eremi, di chiese che ancora resistono ferite se non proprio diroccate, comunque abbandonate, scorgo un ponte tibetano, un assurdo ponte tibetano di legno e cordami che scavalca la depressione in fondo alla quale si annida il corso d’acqua, torrente o fiume a seconda delle stagioni, che corre chissà dove… Una rete di sentieri ben pressati e tracciati invita a salire, ad andare su. Per i più coraggiosi ed anche curiosi. Mi sembra di aggirarmi in un mondo morto… ovunque sagome architettoniche come quinte teatrali da spostare alla bisogna… nemmeno statue di sale a dare l’idea di un popolo partito…o magicamente trasformato in pietre. La fine dell’ultima Guerra segnò la fine di ogni brulichio vitale in questa terra giunta direttamente dal mistero o dal miracolo della vita che non si arrende e che non si era arresa sino al momento in cui il nuovo mondo trasformato in un enorme villaggio globale decretò la vergogna della miseria ed invece di riscattarla la cancellò come un abominio.

I sassi vennero svuotati. Il pudore, la povertà, rimossi. Vi eran case popolari con cucina e bagno ad attendere sul piano, a qualche chilometro, i sopravvissuti. E l’emigrazione verso i luoghi del miracolo, quello economico che comprava lavoro a basso prezzo e vendeva sogni sbagliati. Il silenzio ed il deserto calò definitivamente…lo svuotamento dei Sassi era compiuto, abbandonati in attesa di qualche idea di recupero o di valorizzazione, di tempi migliori o peggiori a seconda dei punti di vista. Di Carlo Levi restò il ricordo fissato nel suo romanzo “Cristo si è fermato ad Eboli”, un po’ più su, verso la Campania felix, terra salernitana. Ed i suoi quadri raccolti nel Museo cittadino realizzato nel palazzo Lanfranchi oltre la Gravina ed i Sassi, dove inizia la Matera moderna, quella nata nel settecento con i suoi palazzi e le sue chiese che chiedevano di cancellare la memoria sprofondata in fondo alle cavità che si potevano osservare dal belvedere, per farsene una ragione. Mi chiedo cosa penserebbe oggi un redivivo Carlo Levi. Ed anche José Ortega il pittore e scultore spagnolo, maestro dell’arte della cartapesta policroma, che qui riparò negli anni ‘70, in fuga dalla dittatura franchista dopo l’esilio seguito al carcere in terra di Spagna, il suo Paese in cui, tuttavia, non riusciva proprio a riconoscersi. … Sarebbe giunto il tempo per rimediare. Rimetterci mano su e tra i Sassi, ma la diaspora non si sarebbe mai più ricomposta e i protagonisti di quella non si sarebbero più nemmeno riconosciuti. Dimenticare, andare oltre, la parola d’ordine… Quando ci venni la prima volta era la seconda metà degli anni ‘80 del secolo ormai passato.

Brulicava di giovani e ragazzi che era una meraviglia. Dovevi cercare con il lanternino una trattoria o un bar… in compenso trovavi ospitalità dappertutto e inviti a pranzo o a cena con meravigliose e dotte discussioni e conversazioni. Intellettuali, artisti, musicisti, architetti, scrittori, tutti si eran dati appuntamento nel luogo della vergogna e scoprivano che quello era il luogo della memoria di tutta intera l’umanità resistente e per nulla intenzionata ad arrendersi. Anche Pasolini la pensava così. Non erano ancora arrivate le super produzioni cinematografiche… Matera non era ancora il set cinematografico per antonomasia ed i suoi abitanti un esercito di comparse. La biennale di scultura nei luoghi della memoria faceva scalpore. L’eco della sua fama aveva raggiunto il Giappone e l’America. Era andata ben oltre la Basilicata, il Sud, l’Italia e la stessa Europa. Il miraggio del progresso e del guadagno possibile, facile ed a portata di mano, era in agguato ma non si era ancora materializzato. Il conservatorio risuonava di voci e suoni, la piazza del Sedile, appena al di là della gravina, brulicava di presenze e passi infiniti la segnavano.

Il jazz la faceva da padrone. Club, auditorium, chiese, vecchie fabbriche, ospitavano i musicisti che arrivavano da ogni dove… l’Onix incideva e produceva i cd dei suoi ospiti… Ralf, un giovane tedesco abile con la pietra e lo scalpello, aveva dichiarato una mansueta inarrestabile guerra a quanti volevano cacciarlo per “bonificare”, dicevano, l’area in cui insisteva la sua casa a ridosso di uno dei Sassi. Per fare alberghi era la verità. Lo conobbi con Lavinia, un’insegnante che aveva trovato a Matera la sua sistemazione e nei Sassi l’abitazione, un po’ fredda, anche umida, ma in compenso quasi gratis condivisa con altre colleghe che salivano e scendevano su e giù allegre e felici… “conoscemmo un sacco di gente, ragazzi e ragazze che arrivavano da ogni parte, professionisti e artisti in massima parte e poi quelle salite e discese continue che rassodavano i muscoli e disegnavano i nostri culi, una meraviglia… altro che palestra” raccontava ridendo mentre mi conduceva da Ralf, Giannino, Roberto… A loro volta i ragazzi del posto giravano il mondo e tornavano con giovani amici e amiche, compagne anche che coloravano e rallegravano quel mondo che era tornato a vivere a dispetto di tutti. Io stesso, ignaro di dio e in rotta con la chiesa, mi trovai a fare il padrino del figlio di Roberto, un artista eccelso ai miei occhi ma non ai suoi troppo mansueti, che lavorava la pietra, il legno ed il ferro arrugginito e abbandonato nelle discariche inventando nuovi linguaggi e nuove forme di vita.

Con la complicità di un prete cristianamente ribelle accompagnai al fonte battesimale Harold il suo ultimo rampollo insieme ad una madrina che era arrivata dalla Nigeria ed era musulmana. Pensavo di essere stato catapultato nel regno della felicità senza sovrastrutture, infingimenti e ipocrisie… Poi me ne andai. Anch’io preso dal vortice dell’esistenza nel caravanserraglio in cui i nuovi potenti e gli aspiranti padroni del mondo avevano trasformato il villaggio globale. Sino ad oggi. Intanto era nato il mito del turismo. La città dei Sassi si prestava a regalare adrenalina a buon mercato ma anche finte emozioni a suon di SPA e idromassaggi con vista sui sassi e sulle gravine ricche di buchi come groviere. Era la promessa della ricchezza che avrebbe portato con sé il presunto riscatto. Più in là il petrolio aveva completato l’opera. Le royalties avrebbero impinguato il bilancio della regione. La miseria del passato, via, spazzata come un velo di polvere sotto lo straccio umido. E arrivò il premio atteso del riconoscimento di Matera, la città dei sassi, già patrimonio dell’UNESCO e per questo di tutta intera l’Umanità, capitale europea della cultura… fiumi di turisti, anche di soldi più o meno veri e sicuramente spesi così, così o non spesi affatto … Collegamenti stradali e ferrovie (immaginate) per cancellare la vergogna passata e l’isolamento plurimillenario, tutta roba che in realtà aveva consacrato Matera santuario della memoria universale del mondo. …

Il carnevale di Venezia segnò, inopinatamente quanto assurdamente in una terra ricca di straordinarie tradizioni e riti popolari nella ricorrenza del carnevale, l’inizio del regno sullo scranno di capitale europea della cultura. E alberghi, alberghi di tutti i tipi e ristoranti anche di tutti i tipi e bar, locali, anche questi di tutti i tipi… La “gentrification” da “overturism” come sicuramente l’avrebbe definita Michael Gentile, il mio amico professore di Geografia urbana ed umana tra la Svezia e la Finlandia, la Danimarca, la Norvegia ed i Paesi Baltici e che aveva studiato il fenomeno da quelle parti, fatto di svuotamento dei centri storici trasformati in dormitori per turisti e residenze esclusive per gente ricca in vena di luoghi e non solo abitazioni, ad essi, e solo ad essi, riservate . A ricordarmi la magia dei sassi, il miracolo ed il mistero della vita qui sedimentata, incuneata da sempre, erano rimaste le note che continuavano a trapassare ancora, come allora, i muri del conservatorio. Le note musicali e le luci discrete della libreria Dell’Arco illuminata dal viso aperto e gioviale del suo giovane profeta, Nicola, che usa i libri e la libreria come piedistallo, leva per ritrovare la bellezza sulla sponda di questo spicchio di umanità che non vuol morire e che rivendica per sé e per tutti il dovere di vivere perché è questo il destino del mondo ed il destino degli uomini anche quando troppi tra di essi se ne dimenticano. Elisa inizia la serata raccontando un po’ la genesi del mio romanzo di Viaggio “L’altra faccia di Partenope”, qui approdato con mia grande gioia, la gioa di un innamorato che torna nei luoghi che quell’amore avevano segnato. Iri, il mio amico e poeta basco, una sera mi aveva affidato Beatriz.

Era arrivata con lui da San Sebastian e non sapeva nulla del miracolo materano. Eravamo appena tornati dalle terre di San Benedetto. San Benedetto e Santa Scolastica ma anche Lucrezia, Lucrezia Borgia che da quelle parti viveva in una splendida rocca isolata in cima al colle che incombeva sulla piccola trattoria deserta dove tutti e tre, la sera del primo dell’anno, ci eravamo rifugiati per assaporare la poesia di quella notte rigida, ricolma di stelle e imbiancata da un’abbondante purificante nevicata. La condussi, mentre Iri registrava, in quel di Cassano sul versante adriatico delle Murge, con l’altro mio amico, Antoni O’ Breschi, musicista toscano naturalizzato irlandese, musiche basche e celtiche, nord africane e della Bassa Italia, Basilicata compresa, intrise di vita sconosciuta ai teatri paludati. Fu un tuffo al cuore quella visione. Un tuffo che non avrebbe mai raggiunto il fondo dell’anima di Beatriz. … “Ho toccato, come in un sogno apocalittico, il cielo e la terra, il divino e l’umano, l’abiezione ed il riscatto, la ricchezza e la miseria, la fuga e il desiderio, la notte e il giorno, la folla e la solitudine, la meraviglia e il degrado”. Paola, aveva riportato questa frase dalla premessa che avevo anteposto al mio romanzo di viaggio alla ricerca della faccia nascosta dell’Umanità che si annida nei luoghi di Partenope. Era seduta tra il pubblico davanti a me ed i suoi occhi lampeggiavano di emozione. Quella frase l’avevo letta a sera scorrendo le pagine di Facebook in un post da lei appena pubblicato… ero sorpreso, avevo dimenticato quella frase. Adesso mi sembrava che essa esprimesse i mie pensieri per questa città… perché essa forse è la sintesi estrema della storia dell’umanità ovunque si raccolga in cerca della speranza. E, perché no, dell’amore, ovunque esso si annidi. Il falco grillaio nidifica ancora tra i Sassi di Matera.