Castro. Dove abita il Mediterraneo e si pratica il pensiero Meridiano

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è Castrum Adriaticum (Castro) comune  di circa 2376 abitanti della provincia di Lecce, formato dall’abitato principale di origine medievale, posto su un promontorio a 98 m s.l.m., e dalla parte bassa di Castro Marina, sorta intorno al porto. (N.d.R)

 

Mi ero imbattuto, la sera del 18 luglio 2023, in un paesino in fondo all’Adriatico. Castrum era il nome ad esso assegnato, un tempo, dai Romani.

Sta in cima ad una piccola altura che precipita in mare con una bruna scogliera che da lì prende ad incorniciare l’intera costa sino all’estremoa Punta di Finibus Terrae come chiamavano i Romani la parte estrema della penisola che, acuminata come una freccia, chiudeva la terra dei Messapi al termine di una corsa di un centinaio di chilometri tra il mare Ionio e il mare Adriatico. La stessa che i pellegrini che giungevano dalla via Francigena al tempo delle Crociate, diretti in Oriente, presero a chiamare Capo di Santa Maria di Leuca, per il santuario dedicato alla Madre di Dio ivi presente insieme al faro e per il biancore delle onde che lì spumeggiavano già  prima di infrangersi sugli scogli a causa dell’incrocio dei due mari.

Sarà stato per il candore della pietra che esaltava le chiese ed i palazzi, saranno state le linde  viuzze lastricate di candidi basoli e le piazzette ariose, sarà stato per i suoi abitanti che in numero sparuto si aggiravano insieme ai pochi forestieri o forse la suggestione della grande statua di Athena Iliaca appena ritrovata negli scavi a ridosso dell’acropoli e sistemata in un museo tutto per sé nel restaurato castello, fatto è che aggirandomi per Castrum Adriaticum, quella sera finì per ritrovarmi catapultato ad Oriente, in fondo al Mediterraneo, sulle rive dell’Ellesponto, dentro ad una notte illuminata dal funesto incendio di Ilio mentre Enea con il padre Anchise sulle spalle ed il piccolo Ascanio aggrappato alla tunica, correva verso una insenatura nascosta oltre il fiume Scamandro dove un folto gruppo di commilitoni lo attendevano con le navi già pronte, per imbarcarsi, mettere in salvo i lari e cercare una nuova Patria, secondo le indicazioni date da Ettore apparsogli non appena aveva chiuso gli occhi stanchi in quella maledetta notte. Nel suo girovagare per il Mediterraneo il figlio di Venere era  giunto  ai piedi di quel promontorio dove adesso sorgeva Castrum Adriaticum. Si era fermato per concedere un po’ di riposo agli equipaggi e per rifornirsi di acqua e cibo ma, al momento di riprendere il mare, una parte dei suoi compagni non vollero saperne di continuare a navigare e si fermarono. Quel posto somigliava troppo ad Ilio sacra e quei soldati sconfitti, sopraffatti dalla stanchezza, dal dolore e dalla nostalgia,  pensarono di ricostruire proprio lì mura, vie, palazzi e templi della loro vecchia Patria e cominciarono dal Palladio che avrebbe dovuto presidiare l’accesso dal mare proprio come nella loro città distrutta dal fuoco sacrilego di  Odisseo e Diomede. E vi innalzarono la Grande statua di Athena Iliaca.

Non era solo l’idea di Ilio ad avermi suggestionato.

                                                              

Ai margini della via che conduceva sulla spianata che  un tempo ospitava l’Athenaion, alcune donne erano sedute in cerchio nei pressi della porta di casa di una di esse a discorrere  quiete mentre si godevano il fresco della sera che finalmente vinceva la calura del solleone pomeridiano. Si percepiva un’atmosfera familiare e tranquilla scevra da ogni ansia o fretta. Era come se tra quelle donne, su quella strada, lungo la scogliera da cui si dominava il mare silenzioso in quella notte senza luna, il tempo fosse libero di scorrere placido e lento a suo piacimento. E camminando senza meta ed al riparo da ogni urgenza, mi sono ritrovato, anch’io, cullato dal discorrere lento di quelle donne, immerso nella magia del pensiero meridiano ormai del tutto ripudiato nella dimensione metropolitana.

Antico come le stagioni che si alternano  è il pensiero meridiano. Esso ha preso forma e consistenza tra le genti che popolavano dalla notte dei tempi le isole e le sponde mediterranee sino ad identificarsi con esse. Da quelle parti infatti l’estate inonda di luce e di calore le terre e induce popoli ed individui a sospendere le attività quotidiane, allentare i ritmi, allungare i tempi, favorire l’otium e coltivare il convivium, le relazioni, l’amicizia. Il pensiero meridiano  esaltava, di conseguenza, la capacità degli uomini di spingere l’esistenza propria ed altrui verso la conoscenza di sé e del mondo al riparo da eccessi e frenesie. 

La lentezza, amica della fatica quotidiana e dell’altalenante procedere delle stagioni, alimentava un sistema di valori sobrio che dava forma ad azioni e comportamenti quotidiani funzionali allo sforzo delle produzioni agro-pastorali e coerente con una vita senza sprechi ed eccedenze, rispettosa del senso della misura e del limite, che dal canto loro, esorcizzava il rischio di travalicare le proprie forze e proteggevano dall’arroganza che sfidava gli dei stessi oltre che gli altri uomini  e la natura. 

Il sole che in estate, a Mezzogiorno, inonda ancora oggi, in ogni parte, le contrade mediterranee, costringeva alla lentezza e questa portava ad allungare la vita, centellinandola al riparo dalla pericolosa esposizione al soverchiante calore oltre che all’usura della fatica, spingendo a praticare la necessaria moderazione, quella che era mancata ad Icaro nel suo volo, e portando a sviluppare il senso del limite contro ogni eccesso che va a cozzare con le umane possibilità e va in rotta di collisione anche con il proprio destino. D’inverno la notte che si allungava ed il maestrale che spaventava inducevano a privilegiare la dimensione familiare e quella comunitaria praticando la compassione e la solidarietà e  cercando la simbiosi con la magia e la divinità nel rispetto dei lari custodi delle case e dei padri custodi della patria. Nelle stagioni intermedie, autunno e primavera, la mitezza del clima e l’abbondanza delle piogge  aiutavano a preparare la terra alle semine ed a salvaguardare il futuro con i raccolti consentendo il naturale dispiegamento del lavoro umano nel rispetto della natura e della divinità.

Nelle Isole Greche, tra i Dardanelli,  nella Magna Graecia e sulle sponde dell’Africa e dell’Asia, gli uomini finirono così per addomesticare il tempo vivendo sino ai cent’anni ed anche oltre. Privilegio, questo, che continua ancora oggi  a segnare  le terre mediterranee. Tale convincimento lo  trassi osservando quelle donne sedute in ronda in quell’angolo di Castrum in cui vi era più di un’anziana pienamente padrona di sé che trasferiva la sua sapienza alle più giovani le quali a loro volta  assicuravano protezione e sicurezza. Era un sistema sociale in perfetto equilibrio quello che si offriva ai miei occhi, riflesso della pratica istintiva, comunque inconsapevole, del pensiero meridiano nella sua forma spontanea e quindi più elevata.

Mi ritrovo così a discorrere, con le mie dotte amiche che mi accompagnano nella visita, sul sistema filosofico greco che segnò il punto più alto del pensiero meridiano e che induceva a privilegiare la peripatetica scoperta e la conoscenza di sé in coerenza con la natura che ci avvolge,  piuttosto che  sfidare la divinità o inseguire il dominio del mondo. Alla  generosa offerta di Alessandro che con doni e promesse intendeva dimostrare al maestro la sua devozione oltre che il suo rispetto, il filosofo Aristotele si racconta rispondesse invitandolo a spostarsi onde lasciargli godere  le carezze del sole che la sua incombente  figura bloccava.

E rammento che  i Greci, proprio come quei radi abitanti di Castrum Adriaticum, tenevano a sé, al loro tempo, al loro essere, più che ad ogni altra cosa sino a rifiutare l’idea stessa di costituirsi in nazione o costruire un impero. Roba che volentieri lasciavano ai barbari, fossero Macedoni o Persiani. Filippo o Alessandro. Dario o Serse. Lungi dall’essere percepita come causa di debolezza che li avrebbe portati alla mercé dell’altrui potere, quella era la forza dei Greci, come ebbero a riconoscere gli stessi Romani che dal pensiero dei Greci si lasciarono felicemente sopraffare. Esattamente come l’insipienza della ressa costiera o l’ansia metropolitana che debordavano lungo la marina, a qualche chilometro dal borgo, esaltavano la grandezza di quelle donne con cui io stesso e le mie compagne avevamo preso a discorrere.

Insomma la lentezza del vivere, la conoscenza di sé e dell’universo, l’otium creativo, la simbiosi tra uomo e natura, l’ozio sapiente, il gioco,  l’arte e la poesia, l’indipendenza propria e delle comunità di appartenenza come l’autonoma  affermazione dell’essere, rappresentavano altrettante peculiarità o risvolti del pensiero greco che a sua volta era alla base del pensiero meridiano. Tutta roba che stavo ritrovando a Castrum Adriaticum quella sera del 18 luglio 2023 che  poco alla volta si addentrava nella notte.

L’infinita catena di popoli e città lungo le coste mediterranee, il proliferare delle lingue e, a latere di queste, il moltiplicarsi dei dialetti nascosti in ogni angolo ed anfratto, esattamente come il dialetto parlato dalle nostre interlocutrici intessuto di fonemi greci ed orientali che si mischiavano con quelli autoctoni, ne erano la evidente riprova. 

La moltiplicazione delle lingue e delle differenti espressioni creative di individui e popoli fa tuttora il paio con la straordinaria, infinita biodiversità della natura che rende unico il  Mediterraneo  sul pianeta, mentre la  civiltà che tutto lo informa sin dal tempo dei primordi è la cartina di tornasole della sua grandezza. Così mi aveva detto Pedrag Matvejevic, in un’altra indimenticabile sera vissuta lungo il litorale Sorrentino in un angolo del golfo partenopeo, dove con un paio di amici ed amiche ci eravamo ritrovati a cena cullati dallo sciabordio delle piccole onde e silenziose,  affascinati dalle sonorità  della lingua della padrona della trattoria e dei suoi figli e incantati dal cielo stellato e  dalla magia di Napoli affacciata all’orizzonte.

Era difficile per me frenare il flusso di pensieri che scaturiva dal discorrere della ronda di donne che mi  catturavano come fossero state delle potenti calamite o delle fate in incognito.

La contrapposizione tra Nord e Sud, tra Oceano Atlantico-Mar del Nord e Mediterraneo, i primi segnati da frenesia e cinico pragmatismo, il secondo da lentezza e fantasia si andava delineando con assoluta  precisione  nella mia mente in uno con la contraddizione tra la nuova civiltà e l’antica. 

Efficienza contro adattamento, esasperante anelito alla produttività contro ricerca della coerenza e compatibilità tra uomo e natura, voracità dei consumi contro senso della misura e del limite, elefantiasi e concentrazione delle strutture produttive contro piccolo dimensionamento e diffusione capillare delle stesse in funzione dei bisogni  dei territori e delle comunità, agricoltura iper intensiva contro agricoltura familiare, biodiversità contro monocolture specializzate, ne erano i contrapposti parametri. Essi segnavano, senza alcuna possibilità di confusione, l’essenza dei popoli e degli individui in relazione alla loro provenienza geografica che si combinava con la dimensione sociale e culturale a quella connessa. Tutto mi era diventato chiaro davanti  al lento discorrere di quelle donne.

Certo la contrapposizione si è risolta al momento nella sconfitta del Sud e del Mediterraneo. Quelle donne erano delle sopravvissute ed io stesso e le mie compagne eravamo degli improbabili epigoni destinati a scomparire. Eccesso produttivo e consumistico, esaltazione della produzione e dell’esasperazione speculativa, emarginazione del sé autonomo e cosciente in favore della massa amorfa e sprezzante han prevalso su tutta la linea. Il Sud ed il Mediterraneo sono oggi ai margini ed essi stessi sono spinti a fondersi e confondersi per omologarsi e diventare parte del caravanserraglio globale per sopravvivere. In alternativa non resta che lo spopolamento e la desertificazione. La fine.

Eppure Sud e Mediterraneo, come Castrum Adriaticum e la miriade di borghi che ho attraversato in 1500 chilometri di cammini nelle terre di mezzo colpiti da esasperante diaspora degli abitanti, serbano in sé le caratteristiche per salvare il mondo, restituendogli il senso della misura ed il senso del limite in uno con la lentezza amica del pensiero meridiano. In esso, insieme alla presenza della vite e dell’olivo, si compone l’unità del bacino mediterraneo, quella cantata da Omero e decodificata da Braudel e da Matvejevic. 

Europa, Odisseo, Enea, Icaro, Apollo, Athena, Poseidone ne han segnato i confini codificati dalla epifania del divino che si mischia, si combina e si scontra con l’umano mentre la luce infuocata   del meriggio rallenta i ritmi ed invita a sospendere l’esistenza, assaporandola, dilatandola ed allungandola, con il senso della misura che deve sempre informare di sé l’umana essenza sulla scia del rispetto e del timore dello sguardo divino. Esattamente quello che mi stavano mostrando quelle donne di Castrum Adriaticum.

E mentre quelle parlavano della loro giornata e del loro tempo, dei campi appena più in là che attendevano le cure dei loro uomini oltre che di loro stesse, delle loro case che profumavano di innocenza con i gatti accovacciati nei pressi delle padrone, io mi addentravo nei meandri dei miei ragionamenti. Quelle sembravano non accorgersi ma sapientemente mi fornivano le leve per dipanare ed ordinare i miei pensieri.

E rievocando quella notte mi dico che oggi più che mai si pone la necessità di riscoprire l’essenza religiosa dell’universo umano ricacciando indietro la prevaricazione consumistica e ristabilendo i valori primordiali ed ancestrali del Mediterraneo.

Avrei voluto dir loro queste cose ma i loro occhi mi dicevano che non ve ne era bisogno. Così come Camus non aveva avuto bisogno di rappresentare il suo pensiero al popolo algerino con cui egli aveva vissuto e da cui aveva tratto il necessario alimento allorquando elaborò il suo convincimento che tra le genti mediterranee fosse depositato l’antidoto contro l’insorgente consumismo del centro-nord Europa che avrebbe cancellato ogni senso del limite e della misura tra gli uomini avviandoli alla perdizione. Così  mi limito a pensare tra me che sta tutta nel pensiero meridiano la possibilità che l’umanità ritrovi la strada che sola può salvarla dalle derive che l’hanno portata a rinchiudersi in una prigione senza via d’uscita. E sono grato per questa lezione che, senza iattanza  e inconsapevolmente, il borgo di Castrum Adriaticum mi ha impartito e mi dico che in questa sera, la sera di mercoledì 18 luglio 2023 ormai divenuta notte, ho avuto una meravigliosa epifania.

Castrum Adriaticum 

La dimensione meridiana

ho trovato qui a Castrum Adriaticum

splendente sul colle Mediterraneo

 

Se arrivi a Castrum   

forestiero fermati sull’acropoli

che domina l’Adriatico

in direzione dell’Egeo caro agli Dei

e dell’Ellesponto dove Priamo regnava  

 

Avrai tempo per scendere al mare

e immergerti nel blu delle acque profonde

Prima avventurati 

tra i vicoli e le piazze

le chiese ed il castello

 

Ti verranno incontro i centenari 

che qui vivono numerosi

al riparo della memoria antica 

 

Qui troverai  

la dimensione meridiana  

accesa dal sole estivo

a picco dardeggiante sulle falesie

le bianche case 

le piazze ed i cortili

i palazzi 

e la cattedrale subentrata ai templi antichi

 

Essa qui allunga la vita

e la allarga

frenandone i ritmi 

e ampliandone i desideri 

dell’altrui conoscenza

 

Abita il paese  

e custodisce ancora l’antidoto

per sconfiggere la frenesia consumistica

del caravanserraglio che imprigiona il mondo

 

Anche il pensiero meridiano

a Castrum vive  nella luce accecante 

che avvolge ogni cosa di calore e splendore 

sino a costringerti a rallentare il tuo andare 

e socchiudere gli occhi 

nell’irrompere del meriggio 

allorquando il sole è a perpendicolo sul  Mediterraneo

sulle isole  e sulle coste su di esso affacciate 

a dilatare i tempi sui promontori

le acropoli

i templi

le mura

le città

i campi appena più in là

coltivati o brulli

attraversati da mandrie e greggi 

e da nugoli di contadini 

che li cuciono con i loro passi 

e li tessono con i loro orti

 

È la società agro-pastorale

da cui tutto è nato

e a cui tutto deve tornare 

 

Odisseo ed Enea

Achei e Troiani

si dispersero 

tra anse e approdi 

in tutti gli angoli del nostro mare  

alla ricerca della patria antica

e di luoghi per inventarsene una nuova.

E su tutti aleggiava 

lo spirito del gran Padre Mediterraneo 

che ancora  oggi unisce  popoli e patrie

culture e civiltà

inghiottendo guerre morte e rovine

Ovunque esso quiete irrorava 

al pari del lento andare dei centenari  

abitanti nell’antica  fortezza castrense 

 

Il pensiero meridiano a Castrum  

ancora arrotonda  i ritmi faticosi del giorno

mitiga il passo frettoloso fino a fermarlo

allunga la vita delle genti e la dilata

con la conversazione intima con sé o con gli dei 

e con quanti esse incontrano tra gli uomini 

lungo il loro cammino 

o fermi in attesa che il meriggio cessi il suo dardeggiare

ed intanto accarezzano il lento fluire del logos 

e gustano la fresca carezza di Zefiro

ogni emozione centellinando

all’ombra di un albero o nell’orto di casa 

o dietro ai bianchi muri di pietra che chiudono i templi 

a Itaca e Micene

a Creta e nei villaggi dell’Ellesponto 

intorno alle sacre sponde dello Scamandro 

o tra le innumeri contrade delle terre italiche. 

 

Sei a Castrum forestiero 

cara agli dei antichi

fondata da miti guerrieri  sfuggiti all’incendio di Ilio 

che recarono con sé il ricordo del Palladio

e il desiderio di una patria nuova

una patria anch’essa mediterranea

“A Castro, siamo in tremila…” aveva iniziato così il suo dire l’unico signore della ronda femminile evocando il nome odierno di Castrum. Un’età facilmente riconoscibile, tra i cinquanta ed i sessant’anni, abbronzato,  asciutto nel fisico e gioviale nello sguardo, é seduto anch’egli con il gruppo di anziane signore ai margini della piazza che si apre sul retro della cattedrale e del palazzo vescovile che mostra i suoi splendori  dalle alte finestre illuminate.

“Siamo tremila abitanti e abbiamo 22 centenari” aggiunge e continua “ la vede la  signora accomodata davanti a me? Ha 92 anni e vive in casa sua da sola. Efficiente e padrona. Autonoma e sicura. È diventata un po’ sorda ma, per il resto, una forza della natura.” Le altre signore, dall’età variegata tra i cinquanta ed i settanta, fan cenno di sì con la testa, mentre chiedo il permesso di fotografare quell’assemblea che mette insieme la storia di genti vissute tra le pieghe del Mediterraneo per millenni e che si erano, altrove, combattute fino a distruggersi. 

Più in là, fuori dalla cinta antica, una piazza moderna è popolata da un manipolo di adolescenti che si addestrano ad addomesticare il tempo sfidando la calura che ha invaso la notte sotto lo sguardo rassicurante di un monumento che celebra il mito di Enea che nella vicina insenatura,  secondo Virgilio dissetatosi al sapere del messapico Quinto Ennio, aveva trovato approdo prima di  riprendere il mare e puntare a Sud, attraversare l’Adriatico e lo Ionio, giungere nel regno di Sidone e risalire per il Tirreno, immenso come l’Oceano sconfinato, e finalmente raggiungere la foce del Tevere.

In questo spicchio di Mediterraneo tutto si tiene. La cattedrale dell’undecimo secolo rivela, addossata alle sue mura, una chiesa  Bizantina del nono secolo che mostra le vestigia di un  tempio paleocristiano che a sua volta aveva inglobato un tempio pagano ricco di colonne doriche. Più in là, oltre la piazza, si distende sino al mare il fianco del colle su cui insisteva la spianata con il tempio di Athena Iliaca. È sempre il signore cinquantenne che mi racconta questi dettagli preziosi e che illuminano la notte castrense. Con il braccio libero mi indica la direzione del sito archeologico mentre con l’altro tiene abbracciata la sua giovane signora seduta sulla seggiola accanto a lui. “Più avanti, verso il mare nascosto dalla notte, potete raggiungere  la zona degli scavi che han portato alla luce la grande statua di Athena, simile all’effige della dea custode di Ilio”. Beh, non è un miracolo del Mediterraneo questo? Un intreccio di popoli e di storie, di drammi e di speranze, di culture e civiltà dipanatesi in migliaia di anni ha trovato la sua epifania sul promontorio di Castro ricco di grotte costellate di escrescenze calcaree, di stalattiti sfilacciate come gli stracci che qui chiamano “zinzuli” e che contengono i primi vagiti dell’umanità che in questa terra si era data convegno già tra 120.000 e 60.000 anni addietro lasciando i suoi segni nella grotta “Zinzulusa” custodita dal mare.

E mentre mi avvio verso il terrapieno mi illudo che il seme della civiltà qui custodito sia ancora una volta pronto a sbocciare, accorgendomi che quell’illusione, nell’ultimo sguardo rivolto all’aedo ed alla ronda divenuta coro, ha assunto le fattezze della speranza.

È straordinaria la somiglianza di Castrum con Ilio. Come ad Ilio, sull’Ellesponto, qui i fuggiaschi troiani ricostruirono in miniatura la loro patria distrutta. I Messapi, che allora già popolavano questo lembo di terra, osservavano senza muovere guerra ed anzi mischiandosi con i nuovi arrivati e dando accoglienza a quegli stranieri desiderosi di pace. Più in là, a nord-ovest, sul grande golfo del litorale ionico, i Dori avrebbero creato Taranto, fulgida nella sua eleganza vestita di oro, bisso e porpora. Le guerre non avevano distrutto il comune sentire dei popoli perché il gran Padre  Mediterraneo vegliava e custodiva il lento procedere della vita.

Non è un caso che i forestieri ancora oggi conoscano  queste  terre come le terre dei centenari e, grato per questo, rivolgo anch’io il mio pensiero ai 22 centenari di questo luogo incantato e come sospeso nel tempo, dove i Romani deposero, come in un cimitero consacrato, la Statua di Athena e costruirono il Castrum  per osservare il mare sull’altra sponda, quella dell’Egeo.

In epoca medioevale, il castello aragonese avrebbe visto il passaggio di Raimondello Orsini del Balzo e di Maria d’Enghien prima che questa, alla morte del consorte in quel di Taranto, andasse sposa a Ladislao re di Napoli. Oggi esso é divenuto tempio della memoria, sottolinea il giovane archeologo che ha partecipato agli scavi. Il piccolo museo dedicato  alla  grande statua di Athena Iliaca è divenuto così il testimone della storia che qui si è intrecciata con le vicende pagane e con quelle cristiane prima di incrociare il tempo medievale e quello rinascimentale, le guerre con i turchi ed il regno di Carlo Quinto e di Filippo suo erede, l’avvento  del regno di Napoli e di quello delle Due Sicilie prima di registrare gli effetti dell’unificazione  nazionale. 

Assorto in tali pensieri ritorno per un’ultima volta sui miei passi verso il sito dell’Athenaion. Saluto ancora la ronda delle anziane signore che rispondono agitando la mano a loro volta. Mi accomiato anche  da Pallade Athena divenuta nella mia mente custode della memoria di Castro, di Itaca e di tutte le isole dell’Egeo, della Magna Graecia, dell’Africa e della Spagna, dei Balcani e del Mar Nero depositari del pensiero  meridiano che, solo, può spezzare le catene del  caravanserraglio che imprigiona l’umanità.  Sarà esso, sulla scia di Omero e di Virgilio, di Quinto Ennio e di Orazio, di Braudel e di Matvejevic, di Camus e di quanti ne hanno riconosciuto  il valore depositato dagli dèi antichi e dallo spirito dell’Universo, ad annullare, finalmente, il veleno del consumismo che sta distruggendo l’umanità. Almeno me lo auguro mentre riprendo la via verso la chiassosa civiltà metropolitana.

 

 

Antonio Corvino