San Giorgio del Sannio, il volto dinamico delle terre di mezzo

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è San Giorgio del Sannio, comune di 9 673 abitanti della provincia di Benevento.

A San Giorgio ci ero stato più di una volta nei miei cammini.

É ad un tiro di schioppo da Benevento, alle pendici della Montagna di Montefusco e avvolto da una suggestiva corona di monti che ne esaltano la posizione di crocevia nella valle del Calore.

Le cime del Monte Taburno mostrano il familiare profilo della Bella Dormiente in direzione nord  mentre il massiccio del Matese e, dall’altra parte,  i monti dell’Irpinia completano il giro d’orizzonte che si dispone in un cerchio perfetto di grande effetto.

Il mio amico Abdelouahab giunto da Algeri con Fateha, la sua sposa, su invito dell’Associazione Campania Europa Mediterraneo, che ha sede proprio a San Giorgio del Sannio, ne é rimasto conquistato. Il cielo azzurro, terso  e trasparente, veniva attraversato da bianche nuvole che esaltavano anche il verde profondo dei boschi lontani e accarezzavano gli oliveti ed i vigneti degradanti lungo i pendii dei più vicini colli che, a loro volta, facevano il contro canto ai monti incastonati sulla linea dell’orizzonte. Quello scenario entusiasmava Abdelouahab, lui che era abituato ai paesaggi urbani di Algeri e di Parigi. Fateha era addirittura estasiata.

Dalla terrazza della tenuta “La vecchia Torre” dove alloggiavamo insieme agli altri ospiti dell’Associazione, egli girava lo sguardo a 360 gradi e accompagnandolo con il gesto del braccio disteso mostrava la sua meraviglia per quel panorama che in verità non cessava di stupire anche me.

La prima volta ero giunto a San Giorgio di sera.

Era settembre inoltrato ormai. Come adesso.

Vi ero arrivato insieme al mio amico Francesco Saverio provenienti da Napoli.

L’Associazione Campania Europa Mediterraneo, ci aveva assegnato il Premio Marzani per l’economia quell’anno. Avevamo curato, io e Francesco Saverio, un volume summa del rovello meridionale che da oltre un secolo e mezzo si avvitava intorno alla spirale del sottosviluppo al limite della povertà intrisa di rabbia, frustrazione ed emigrazione senza soluzione nelle corde o nei programmi di chi governava.

Era il 2019. E quella sera ragionammo di Sud e delle nascoste vie d’uscita che, io sostenevo, non potevano prescindere dal riscatto delle terre di mezzo. Così chiamavo le aree interne,  denominate in  tal modo nel linguaggio della politica, non perché volessi fare il verso a Tolkien ed alla sua saga degli Hobbit piuttosto che al ciclo dell’Anello, ma perché esse occupavano lo spazio tra le aree urbane e le metropoli, il più delle volte abbandonato  a sé stesso, dimenticato da dio e dagli uomini, come si suol dire e soprattutto trascurato dalle Istituzioni che, da sempre, in epoca contemporanea,  sembrano ignorarne addirittura l’esistenza.

Quell’anno avevo intrapreso la mia avventura di camminatore sui sentieri e tratturi tra monti, valli, fiumi, boschi, campagne, borghi, castelli e quindi cominciavo ad avere una cognizione diretta del rischio spopolamento  di quelle terre bellissime e maledette. Piene di memoria ed impastate di nostalgia. Dolci e amare.

Quando arrivai a San Giorgio in quella prima occasione vidi poco del paese. Peraltro pioveva e pertanto ci ricoverammo in  tutta fretta al chiuso del salone di Palazzo Bocchini sede dell’Associazione che normalmente tiene i suoi eventi nella piazza antistante della contrada Marzani che in passato aveva dato vita, con altri nuclei, a San Giorgio e che culminava in una splendida terrazza con vista sulla montagna di Montefusco sul cui cocuzzolo é raggomitolato l’omonimo centro abitato, oggi poco più di un borgo, peraltro di straordinaria bellezza,  un tempo capitale del Principato Ultra nel territorio del Regno di Napoli  che si stendeva tra Salerno e l’Irpinia.

Quella volta riuscì a vedere ben poco di San Giorgio e tuttavia l’ampio e lungo viale alberato che ne attraversa il centro mi parve, già  allora, davvero bello. Dava un senso di moderna vivacità al paese. I locali aperti sui lati, caratterizzati da ampi marciapiedi a loro volta  protetti, rispetto al corso principale, da più ristretti nastri d’asfalto laterali immersi anch’essi nel verde, davano un’idea di grandiosità inusitata per un centro della provincia. Qualcosa che faceva pensare alle ramblas di Barcellona se non addirittura alle avenues parigine. Insomma un corso-viale-giardino di grande impatto visivo oltre che di innegabile fascino.

Il secondo incontro con San Giorgio del Sannio lo ebbi a Montefusco.

Qualche anno più tardi, ormai divenuto appassionato  frequentatore delle terre di mezzo a Sud, arrivai in un assolato pomeriggio di luglio a Montefusco. Provenivo con altri due compagni da Benevento ed eravamo diretti ad Apice vecchia, il borgo raccolto intorno ad una antica abbazia e ad un possente castello, che era stato abbandonato dopo il terremoto del 1962 e ricostruito a valle, a quattro chilometri più giù.

Erano circa le tre quando arrivammo. Assetati, stanchi e addirittura prostrati dall’ultima salita e dal caldo torrido che ci aveva sferzati dalla mattina presto. Quell’anno l’estate non diede un attimo di tregua e l’afa era tremenda. Imperterriti salimmo passo dopo passo lungo i tornanti che conducevano in vetta, cercando riparo lungo i bordi della piccola carreggiata ombreggiati dai rami sporgenti degli alberi che pure essi si inerpicavano con noi verso l’alto.

Giungemmo così in piazza. Da lì si godeva una splendida vista del territorio circostante, dalla valle del Calore con il Taburno ed il Matese sullo sfondo, sino ai monti dell’Irpinia. Sul lato lungo, il grande muro laterale della collegiata di San Giovanni del Vaglio, che datava dal mille e duecento, prometteva l’arrivo di un po’ di ombra. Sul lato corto che chiudeva il lastricato della piazza-belvedere, un bar aperto. Ci apparve come  una visione insperata. Intorno era tutto silenzio e deserto. Ci fiondammo dentro, con speranzosa circospezione, sperando di trovare qualcuno, rifocillarci  e proteggerci dal solleone. Sapevamo per esperienza che nei piccoli paesi a quell’ora del pomeriggio, era difficile se non proprio impossibile, trovare qualcuno in giro e men che meno un bar aperto.

La costruzione era poderosa e recava in cima una gran lastra di marmo incisa che raccontava storie ed imprese di personaggi lì vissuti: di certo risaliva ai tempi dello splendore di Montefusco capitale. In effetti il locale era parte dell’antico castello di cui erano sopravvissuti i sotterranei-segrete e pochi altri pezzi oggi inglobati nel palazzo del Municipio. Tutte queste informazioni ce le diede la giovane titolare del bar che ci accolse incredula ed anche felice, mi parve. Una volta rintuzzata la fatica con un’abbondante e fresca bevuta, chiesi dove avrei potuto trovare una sacca per proteggere le mie borracce dal sole. “Per questo, dovete scendere a San Giorgio” mi rispose e avendo colto la sorpresa stampata sulla mia faccia, continuò “noi qui, siamo un piccolo borgo. Si e no, un migliaio di abitanti. Non abbiamo molti  negozi. Giusto qualche bottega per le cose necessarie di tutti i giorni. Per il resto bisogna andare a San Giorgio dove si trova tutto.”

Insomma Montefusco aveva abdicato, sin dai primi anni del mille ottocento, alla sua funzione istituzionale di Capitale in favore di Avellino e, via via che si spopolava sino a raggiungere le attuali striminzite dimensioni,  a favore di San Giorgio del Sannio per tutto il resto, a cominciare dal commercio. Capii  di conseguenza che dovevo rinunciare a cercare la mia sacca. É vero che San Giorgio era a due passi. Anzi esso, come indicava il suo stesso nome antico, san Giorgio della Montagna, si trovava proprio a ridosso dell’altura sulla cui sommità era arroccato Montefusco con il suo Castello, le sue mura, le sue porte, le sue chiese, i suoi uffici, la procura, i tribunali, gli studi notarili e legali e tuttavia ripercorrere a ritroso, a piedi, la strada appena fatta non era assolutamente immaginabile. Con quel caldo poi!

Ai tempi di Montefusco capitale del Principato ultra, tra il mille duecento ed il mille ottocento, San  Giorgio era un piccolo villaggio di contadini. Anzi, una piccola galassia di grumi di case nelle campagne dislocate sulle pendici del monte abitate da contadini e braccianti dediti a lavorare la terra per essa e per l’intero contado.

Poi con la decadenza di Montefusco, San Giorgio della Montagna  cominciò a crescere. Gli stessi abitanti della vecchia capitale presero a scendere giù, a trasferirsi sul piano. Ed i villaggi originari divennero altrettanti nuclei della nuova città che, durante il ventennio fascista, precisamente nel 1929, auspice il concittadino Arturo Bocchini, capo della polizia fascista,  infastidito dall’appellativo “ il montanaro” che si sentiva affibbiare a mezza voce e tra sguardi circospetti e divertiti di superiori e subalterni, registrò  il cambio del nome in quello più altisonante e fiero di San Giorgio del Sannio.

Un centro  che oggi conta circa 10.000 abitanti e continua ad attrarre nuovi residenti dai dintorni, compreso il capoluogo Benevento. É di fatto l’unica realtà in controtendenza rispetto al fenomeno dello spopolamento che affligge il resto delle terre di mezzo. La sua dislocazione nella valle del Calore in un territorio leggiadramente ondulato se non proprio, per ampi tratti, pianeggiante, che oscilla tra i cento cinquanta ed i quattrocento metri di altitudine, a soli dieci chilometri da Benevento e quindi sulla direttrice che conduce a Roma ed a Napoli, ha sicuramente dato una mano. E tuttavia a dispetto della tenuta complessiva del numero dei residenti, i ragazzi, quelli, se ne vanno, ahimè, mi racconta Carmine, il proprietario della tenuta La Vecchia Torre che al termine del mio soggiorno mi accompagnerà a Benevento a prendere il mio autobus diretto a Sud, sponda adriatica della Messapia, destinazione San Foca, un antico villaggio di pescatori divenuto ormai paradiso,o inferno, di vacanzieri in cerca di sole e di mare oltre che di incomprensibili divertimenti e  rumori assordanti, fortunatamente limitati al breve volgere della stagione estiva. Se n’è andata anche  sua figlia che si è trasferita a Milano, una volta conseguita la laurea in management, che sta, nel nuovo esperanto, per organizzazione e gestione delle aziende nella lingua italiana, troppo spesso assurdamente quanto inutilmente, violata. Carmine non dispera che sua figlia ritorni, mi confida mentre mi lascia sul piazzale debordante di studenti, a due passi della longobarda  Rocca dei Rettori custodita  dalla imperiale presenza di una maestosa statua bronzea di Traiano. “Troppo bella la nostra terra e troppo forte la nostalgia” mi dice. “E poi chi l’ha detto che qui non si possa lavorare, produrre e svilupparsi…  Noi facciamo olio, vino e tanti altri  prodotti agricoli di ottima qualità se non proprio unici, oltre ad accogliere ospiti che giungono da fuori”…

… Il giorno dopo il nostro arrivo a Montefusco, con calma, dopo aver visitato le carceri del Castello ed il borgo con i suoi palazzi e le sue chiese, ci avviammo verso Apice passando da San Giorgio. Ci arrivammo ancora una volta nel pieno dell’afa pomeridiana e trovammo riparo in un bar della piazza prospiciente il palazzo dei principi Spinelli. Il palazzo era armonioso e lo trovai elegante, addirittura con evidenti reminiscenze rinascimentali. C’era, tuttavia,  qualcosa che mi infastidiva. Quel palazzo sembrava essere stato costruito per godere di una prospettiva profonda che tuttavia gli era negata: la piazza proprio sul fronte dirimpetto era infatti chiusa da una costruzione di chiara ispirazione razionale di epoca fascista, messa lì  ad ostruire inesorabilmente la vista del viale.

La stanchezza e il desiderio di rinfrescarsi e rifocillarsi prima di puntare ad Apice dove saremmo dovuti arrivare per le sei, ebbero il sopravvento e lasciai andare per il loro destino il bel Palazzo  Spinelli e il brutto parallelepipedo del fascio.

Fu Errico, mio anfitrione, qualche anno dopo e già precedentemente primo cittadino dell’antica capitale del Principato ultra, a darmi una spiegazione, in occasione della presentazione a Montefusco del mio romanzo di viaggio “Cammini a Sud” che raccontava storie e leggende, culture e civiltà sedimentate nella memoria delle  genti delle terre di mezzo.

Scendemmo a San Giorgio del Sannio comodamente in auto verso mezzogiorno per un aperitivo. Avremmo incontrato Enzo, il presidente dell’Associazione Campania Europa Mediterraneo, e patron del Premio internazionale giornalistico e letterario Marzani, caro amico di Errico, con cui io pure ero rimasto in contatto avendo avuto modo di apprezzare il grande sforzo che egli ormai da oltre quindici/sedici anni portava avanti per alimentare sul territorio il dialogo Mediterraneo, fondamentale per qualsiasi processo di sviluppo dell’intero bacino compreso tra l’Africa, il Vicino-Medio Oriente e l’Europa del Sud oltre che per le sorti dello stesso Mezzogiorno. Insomma c’era in abbondanza materia  per alimentare e consolidare la reciproca stima: anch’io credevo fermamente nella prospettiva mediterranea.

Fu così che giunti in paese, Errico, mentre passavamo accanto al bel palazzo tardo rinascimentale mi raccontò per sommi capi la storia dei Principi Spinelli, del Palazzo e della piazza con il viale che da essa si dipartiva.

Doveva avere un gran gusto il Principe Carlo III Spinelli ed anche una notevole ambizione. Tra la fine del mille e seicento ed i primi decenni del mille e settecento, egli aveva costruito la sua residenza avendo in mente Parigi e Versailles. Ecco il senso dell’intero intervento che constava anche della piazza e del grande viale alberato disposto su un’ampia  carreggiata centrale  e due laterali più strette adibite ai servizi logistici, più o meno, che dalla piazza partiva recando con sé l’immagine prospettica del palazzo.

Mentre Errico mi raccontava la storia di Carlo III Spinelli io provavo ad immaginare la maestosità e la leggiadria di quella dimora che poteva distendere il suo sguardo oltre la piazza, lungo il viale… tutto intorno, boschi lussureggianti e all’orizzonte, da ogni lato, monti superbi a comporre straordinarie scenografie che a Versailles potevano solo sognarsele. Ovviamente non c’era, allora, il parallelepipedo che durante il Ventennio fascista venne costruito per dare una casa al Fascio. Questa venne piantata proprio  sul lato della piazza dirimpetto al palazzo  Spinelli con la facciata principale a due piani, rivolta, in tutta la sua geometrica razionalità, verso il viale la cui vista risultò così ostruita  al nobile palazzo. Un vero  e proprio sgarbo oltre che un’amputazione assurda quanto gratuita inflitta dal regime fascista alla città privata di una straordinaria prospettiva ricca di bellezza ed armonia…

Così, ahimè, va il mondo quando questo va alla rovescia.

Ed il mondo va spesso alla rovescia. Ne sono testimoni i nostri tempi in cui il mondo è divenuto una sorta di villaggio globale in ossequio alla moderna religione del consumismo tutto proteso ad alimentare le spirali della produzione e della speculazione che stanno stritolando il mondo trasformato in caravanserraglio violento e sempre più prigioniero di oligarchi osannati dagli eserciti delle  loro stesse vittime.

Andò alla rovescia anche nel 1799, all’epoca della Repubblica Partenopea che trovò a San Giorgio, proprio ad opera dell’erede dei Principi Spinelli, un drammatico ed eroico intermezzo.

Il tre maggio del 1799 il ventenne Carlo Maria Spinelli succeduto al vertice della casata resa illustre dall’avo Carlo III, morì nella piazza di San Giorgio alla Montagna colpito dalle pallottole dei soldati del battaglione borbonico giunto a fronteggiare e reprimere i rivoltosi repubblicani della zona che avevano aderito alla Repubblica Partenopea. Carlo Maria Spinelli capeggiava gli ardimentosi rivoluzionari del luogo e, al pari dei suoi coetanei, rampolli benedetti dell’aristocrazia napoletana, aveva  sposato l’idea illuminista del progresso sociale affidato alla ragione degli uomini essendo negato dal privilegio dei potenti. Dopo qualche mese, nel giugno successivo all’eccidio di San Giorgio, a Napoli la Repubblica venne spazzata via dalle truppe del cardinale Sanfelice sostenuto dall’ammiraglio inglese Nelson. A luglio Ferdinando IV di Borbone rientrato dall’esilio, diede inizio alla mattanza della migliore gioventù del regno, espressione della più avanzata aristocrazia, attenta osservatrice ed estimatrice delle vicende francesi. Allora, come affermò Benedetto Croce, il re Borbone si macchiò di una indelebile ignominia che ne segnò il destino presso tutti i popoli e nazioni europee. Non solo, quell’ignominia segnò anche  il destino del Mezzogiorno che venne privato della sua nascente classe dirigente progressista e repubblicana.

Carlo Maria Spinelli morì sul campo di battaglia e almeno si risparmiò l’impiccagione che invece toccò ai suoi coetanei napoletani, uomini e donne.   

Di lì a pochi anni, nel 1806, Montefusco cessò di essere capitale. Rimase  soltanto il duro carcere borbonico ospitato nelle segrete del castello e riservato ai nuovi patrioti ed oppositori.

Da allora, mentre Montefusco si svuotava, San Giorgio, già urbanisticamente impostato dall’azione dei principi Spinelli e delle altre nobili famiglie ivi residenti, prese a crescere sino a diventare il borgo, quindi il paese ed infine la città più importante, nell’immediato entroterra beneventano, nella  valle compresa tra il fiume Calore e la montagna di Montefusco.

Tutta questa storia mi passava per la testa mentre, raggomitolato nel sedile posteriore  dell’auto di Francesco Saverio, attraversavo insieme ai miei amici algerini, Abdelouahab e Fateha oltre che con lo stesso Francesco Saverio e Francesca sua moglie alla guida, l’abitato di San Giorgio la sera del 14 settembre 2024, per recarci a Montefusco dove Enzo ci aveva dato appuntamento per una pizza insieme agli altri ospiti dell’associazione.

Vi era stato un confronto molto serrato e assai elevato sulle sorti del Mediterraneo che certo non vive un buon momento tra guerre, violenze, e genocidi ovunque perpetrati, dalla Palestina alle regioni sub sahariane dell’Africa.

Il mio amico Abdelouahab aveva sottolineato l’impossibilità di uscirne senza una cooperazione tra Africa ed Europa rispetto alla quale la solidarietà nord africana era fondamentale e addirittura propedeutica. La tunisina Olfa, una giovane donna appassionata e intransigente oppositrice  del governo del suo Paese, pensava ad una sorta di ribaltamento della situazione interna quale premessa indispensabile per ogni tipo di alleanza. La Libia dal canto suo continuava ad avere seri problemi  di stabilità come l’Egitto mentre il Marocco sembrava voler camminare per suo conto. Insomma non vi era un orizzonte amico su cui fare affidamento per l’immediato futuro del Mediterraneo divenuto cimitero per migranti sfortunati e mare concupito da potenze estranee e addirittura ostili al suo sviluppo. Eppure tutti concordavano, ed io con essi, che non vi poteva essere futuro per nessuno fuori dal Mediterraneo. Non per l’Africa settentrionale, non per il Medio e Vicino Oriente, non per la stessa Europa che avrebbe presto dovuto fare i conti con il deterioramento del paradigma economico-politico-sociale declinato lungo le sponde del Mare del Nord e dell’Atlantico. Per questi motivi, a  maggior ragione l’azione portata avanti dall’Associazione Campania Europa Mediterraneo era meritoria e fondamentale l’impegno ultra decennale del suo presidente e gruppo dirigente.

Trovavo straordinario che tali temi venissero affrontati in un piccolo paese delle terre di mezzo. Era quella la strada per riscattare il Mezzogiorno. Restituire dinamismo e vivacità intellettuale, culturale, sociale, economica alle terre di Mezzo e farle divenire protagoniste del dibattito internazionale oltre che del confronto nazionale. Roba che a San Giorgio del Sannio un cenacolo di persone animate da grande amore per il Sud e l’Europa delle rivoluzioni, delle vittime delle guerre, dei martiri del nazifascismo e di quanti si erano battuti per  la liberazione del nostro continente  ed il riscatto del Mediterraneo, portavano avanti con grande determinazione. Era davvero qualcosa di straordinario. Un esempio da additare all’intero Mezzogiorno ed alle sue terre di mezzo. San Giorgio del Sannio, già della Montagna, mi appariva così come il risultato di una sedimentazione storica che aveva visto nel connubio tra un’aristocrazia illuminata ed illustrata dal sacrificio del giovane Carlo Maria Spinelli ed un popolo di contadini che aveva conservato la dimensione primordiale della propria umanità, la leva per la sua affermazione. Un esempio di armonia esaltato, a sua volta,  da una impareggiabile bellezza naturale che si combinava con un tessuto urbano prezioso arrivato direttamente dai secoli passati. Le sue strade ampie ed ordinate, le sue piazze, le sue chiese ed i suoi nuclei abitativi distribuiti sul territorio eppure coesi come un unicum inscindibile contenevano un messaggio di speranza davvero non trascurabile.

Così mentre l’auto guidata da Francesca, procedeva lenta lungo il bel viale voluto dal Principe Carlo III della casata Spinelli, mi riscossi dai miei pensieri e come un invasato intimai, in maniera irruente di cui non mi rendevo conto, di fermarsi. Subito, senza frapporre alcun indugio, dissi.

Stavo seguendo il corso dei miei pensieri e questi si erano arrovellati intorno alla vecchia casa del fascio che, all’improvviso, era comparsa davanti a me, completamente illuminata. Una calda luce accentuava il colore paglierino della pietra che dava corpo alla superiore facciata quadrata dell’edificio, imponente nella sua linearità. Mi parve addirittura compassionevole e quasi dispiaciuta essa stessa di dare le spalle al rinascimentale palazzo dei principi Spinelli ed al  monastero ad esso attiguo pure quello  fatto costruire da Carlo III per le donne della sua casata che in esso avessero voluto o dovuto trovare rifugio.

Mi precipitai fuori dall’abitacolo.

Era ormai sera conclamata.

Il paese vibrava di luce artificiale.

Il corso era attraversato da auto sonnacchiose in cerca  di una qualche destinazione.

Intorno alla facciata della casa del Fascio vi era un alone buio che ne sottolineava le linee e la forma scandita dalla luminescenza che la avviluppava. Non si vedeva altro. La casa del fascio dominava il corso voluto dal principe Carlo III ad emulazione di Versailles.

Il suo palazzo, ahimè, non poteva mostrare la sua bellezza a completare la magnificenza del corso e ad impreziosire l’intero reticolo urbano di San Giorgio.

Occhieggiava sui lati, per come poteva.

Io scesi dall’auto e corsi a mettermi davanti alla casa del fascio. Le auto mi scansavano attente, ma mi lasciavano fare.

Le diedi le spalle e immaginai di avere dietro di me l’antica residenza dei principi Spinelli e insieme a Carlo Maria, martire del reazionarismo impudente ed imbecille dei Borbone, ammirai quel corso ampio e intrigante come un giardino che certo non avrebbe sfigurato di fronte alla fantasmagoria di Versailles.

Il Principe Carlo Maria mi fece un cenno con il capo a confortare i miei pensieri che dovevano essere  esattamente identici ai suoi.

Basta eliminare le inutili superfetazioni, le stupide ipocrisie, le obnubilanti assuefazioni al brutto ed al peggio per scoprire  la bellezza che ci circonda  e  ritrovare la forza per affermarla.

San Giorgio della Montagna mi sembrò una buona allegoria di un altro Mezzogiorno… magari anche la metafora di un altro  Mediterraneo. Entrambi possibili. Anzi necessari.

Chiesi se la pensava allo stesso modo al giovane principe ed egli mi fece cenno di si con la testa mentre allargava le braccia come a voler abbracciare tutto intero il corso ed il paese. Aveva una specie di macchia rossa sul panciotto all’altezza del torace e sorrideva allorquando la sua immagine si confuse con le ombre che attraversavano l’aria.

Agitai a mia volta le braccia come a volerlo accompagnare e, finalmente, tornai dai miei amici che pazienti attendevano.

Antonio Corvino