Noci: la magia delle Murge

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è la cittadina di Noci sulle Murge meridionali in Puglia. Noci un comune di circa 18.000 abitanti, in terra di Bari, di antiche origini normanne.(N.d.R.)

 

A Noci ci arrivo da Monopoli. Man mano che ci avviciniamo il treno regionale mi lascia intravedere degli squarci di grande suggestione.

Il campanile barocco con reminiscenze bizantine annuncia il centro storico raggomitolato come una chiocciola intorno al vecchio porto con i suoi cantieri un tempo dominio incontrastato dei  maestri d’ascia.

Poi il treno entra in stazione.

Scendo.

Mi stanno aspettando per condurmi a Noci.

Sono le sette e trenta post meridiem e alle nove e trenta di questa sera ho la  presentazione di Cammini a Sud, il mio romanzo d’amore per il Sud segnato dalla ricerca della memoria individuale nascosta, dispersa e ridotta in frantumi da qualche parte in fondo all’anima e da quella collettiva rimossa e seppellita sotto cumuli di macerie e di pietre come cippi funerari e sopravvissuta solo negli sguardi della gente rimasta nelle terre di mezzo. Non c’è molto tempo.

Matteo, un volontario dell’organizzazione del festival letterario Chiostri e Inchiostri é lì con il logo del festival ben in vista.

Partiamo.

Manco da Noci ormai da  vent’anni.

Sono curioso di rivederla e sono curioso di attraversare la dorsale che segna il dispiegarsi dell’Altra Puglia.

Quella delle Murge magiche e pietrose ricche di gravine, di grotte e cunicoli carsici, di pascoli e boschi anche, dove tranquille si aggirano le mucche podoliche e dove crescono le  selve di trulli e si distende, raggiungendo i sei/settecento metri sul livello del mare, un altopiano ricco di querce maestose, di carrubi poderosi e di olivi regali. É una Puglia che non ti immagini.

Una Puglia che addirittura nega e stravolge l’idea del piano e del mare consacrati dal binario e dall’asfalto che corrono monotoni lungo la costa. Qui devi addentrarti in tornanti addirittura  arditi, talora, avanzare tra un cielo asciutto e trasparente che avvolge una terra ondulata, dolce ed accogliente coperta dal verde cupo e compatto dei boschi o disegnata da campagne ordinate e ben coltivate tra masserie sovrastate dai bianchi coni di pietra  a secco.

Appena più in là Alberobello, capitale dei trulli, recita orgogliosamente il segnale stradale, e Putignano con i suoi ciliegi ed i suoi pascoli, quindi Conversano e Turi. Da quest’altra parte la Valle d’Itria… Martina Franca ed Ostuni, Locorotondo, Cisternino, Fasano.

Di qua occhieggia l’Adriatico, di là  si affaccia lo Ionio. E non è finita. Castellana è pure lei ad un tiro di schioppo con le sue grotte ricolme di stalattiti e stalagmiti a disegnare scenografie giuste per la Commedia dantesca.

In mezzo, nel bel mezzo, Noci.

Osservo con avidità il territorio, assorbo le bellezze di cui é disseminato, non mi sazio di immagazzinare  tutto quanto capita nel mio raggio visivo…

Man mano che ci allontaniamo dalla costa scompare la Puglia conosciuta dai più, la Puglia balneare e popolare ed anche quella esclusiva per maharaja, sceicchi, petrolieri e potenti.

Avanza una Puglia discreta, elegante, culturalmente raffinata, una Puglia che non ti aspetti e che ti incuriosisce.

Il territorio diventa ondulato.

Saliamo e scendiamo in un puzzle ricco di colori. Prevale il giallo delle stoppie.

La mietitura è finita da poco.

I campi sembran pettinati. 

In mezzo al mare giallo si stagliano ampie aree di verdeggiante vegetazione a segnalare produzioni orticole e lungo i pendii che salgono e scendono i vigneti sono rigogliosi e carichi di grappoli e dovunque  si susseguono alberi secolari con tronchi come sculture del tempo.

Lo sguardo insegue senza stancarsi anzi desideroso di scoprire tanta variegata bellezza, inseguirla fin dove può spaziare.

Le Murge intanto si avvicinano.

Immense pietraie convivono con la macchia mediterranea e si alternano a fitte selve di querce.

Lungo i muretti a secco i mandorli sono carichi di frutto ed il loro fogliame già ingiallito dal sole cocente annuncia la raccolta ed il riposo.

E dovunque questo infinito caleidoscopio di colori scolpito dalla luce accecante… e tratturi che si incamminano lì in mezzo.

Tratturi che conducono a Gravina e ad Altamura da dove si corre veloci verso il colle di Picciano ricco di chiese rupestri e si va a Matera con i suoi sassi cotti dal sole o condannati all’ombra sempiterna di giorno e di notte.

“Dobbiamo oltrepassare le alture, là in fondo” mi dice Matteo “e saremo a  Noci… “

Intanto si apre davanti a noi un vallone, rigoglioso, addirittura lussureggiante. Che ci siano delle sorgenti o comunque delle vene d’acqua in superficie?

“ É il Canale di Pirro. Qui un tempo scorreva un fiume o forse entrava il mare… fatto é che da qui si navigava sino all’Adriatico”. Siamo anche a due passi dal Mare Ionio. Il che significa Taranto. Lotte per sottrarsi all’ egemonia di Roma…

Pirro re dell’Epiro venne a dare manforte.

Tutti i popoli italici, che poi erano i popoli a Sud, Osci, Sanniti, Irpini, Lucani, Dauni e Peuceti con i Dori di Taranto, si erano riuniti nella prima lega italica della storia con tanto di capitali e proprie monete… ci vollero cinquant’anni ed un patto di autonoma appartenenza alla Repubblica perché Roma avesse la meglio.

Attraversiamo il  canale di Pirro.

La suggestione è forte. Come si fa a non abbandonarsi al mito, al sogno, alla rievocazione delle lotte antiche ed anche alla tristezza per le miserie attuali…

“É bellissima la vostra terra” dico a Matteo che non è insensibile al complimento.

É giovane e mi sorprende vederlo qui.

Che Noci sia un’eccezione?

Ho qualche reminiscenza del mio antico mestiere… aziende manifatturiere di buona levatura, aziende di costruzione e di trattamento delle acque d’avanguardia…soprattutto un’agricoltura  fiorente e tanta vivacità culturale…insomma Noci e  le Murge tutte, sino ad Altamura con la sua arte bianca, io le ricordo come terre ricche, orgogliose… I ragazzi di Altamura fecero chiudere McDonald’s nel giro di un mese. Caso unico al mondo. Ci fecero pure un film.

Vuoi mettere le focacce ed il pane di Altamura con i panini di McDonald’s?  Da quelle parti hanno addirittura conquistato l’America… altro che McDonald’s.

“Quindi” dico a Matteo “ci sta che qui si sia formata una specie di isola felice al riparo dagli schiamazzi metropolitani delle coste…”

Matteo scuote la testa. “I ragazzi se ne vanno anche da qui” dice sconsolato… ed io lo so… ho sperato per un momento di essere smentito ma avevo visto i numeri, per antica distorsione professionale.

Almeno tremila abitanti si erano trasferiti negli ultimi anni verso il Nord.

Non sono pochi su 17/18.000 abitanti.

Mi aveva telefonato una mia amica originaria di qua, saldamente ormai radicata a Milano salvo che per le vacanze… “verrò  a sentirti” mi aveva promesso. “Finalmente  ci potremo rivedere.” Aveva aggiunto. Insomma il binomio bellezza e sottosviluppo non si rompe. La maledizione del Sud continua… la sera, durante la presentazione del mio libro in una  piazzetta nel cuore del borgo, intima e chiusa da case bianche di calce sovrastate da altrettanti comignoli, ho ceduto alla tentazione, ripensandoci. “Solo il ritorno del Continente Mediterraneo salverà il Sud, e non solo il Sud, anche l’Italia  e l’Europa intera, avevo affermato, argomentando peraltro il mio pensiero. Quando il Mediterraneo tornerà a risplendere i ragazzi  smetteranno di correre verso le metropoli del nord a raddrizzare la propria vita… e l’altrui, ma questo è un altro argomento, avevo avvertito.

Intanto Matteo accarezza i pedali dell’auto  attraversando piano il Canale di Pirro.

I segnali  stradali indicano Putignano, Alberobello, Castellana…Martina Franca.

L’altra Puglia.

Ed io mi taccio per godermi tanta bellezza mentre Matteo lascia scivolare l’auto dolcemente. “Qui, da poco,  c’è stato il G7… almeno ne abbiamo avuto qualcosa. Finalmente hanno rifatto il manto stradale in tutta la zona” dice amaro.

Oltre il Canale di Pirro, sullo sfondo del cielo, mi indica una macchia bianca tutta raccolta come bambagia sulla collina. “Noci con i suoi tre campanili” mi annuncia. C’è ancora luce… sono le otto e mezza,  arrivano le prime ombre ma il chiarore dell’imbrunire esalta la visione del borgo bianco punteggiato dai suoi campanili. Più defilato, il sole va a tramontare definitivamente sul lato. Giusto il tempo per guardare il disco rosso che scende velocemente lasciando  dietro di sé  una lunga scia infuocata che tinge il cielo d’arancio e poi di rosa, sino a rivelare sfumature viola dalla parte opposta. 

Siamo arrivati.

Noci mi viene incontro con la sua periferia fatta di palazzi uguali a quelli di tutte  le periferie… per fortuna mancano i palazzoni e le altezze non sono eccessive.

Attraversiamo il paese.

Destinazione il mio albergo. Hotel Cavalieri.

Il tempo di rassettarmi.

Matteo mi indica “il Centro Storico è di là”

“Va bene” gli rispondo…

Male che vada mi affiderò a Google map.

“Grazie. Arrivederci ed in bocca al lupo” gli rispondo. Matteo mi sorride e si congeda.

Devo sbrigarmi. Ho appena un’ora. Il tempo di una doccia, cambiarmi e cercarmi la piazzetta del centro storico dove parleremo della memoria del Sud… se dio vuole.

Ma adesso ho bisogno di chiudere gli occhi.

Dieci minuti soltanto.

Ho bisogno di rimettere ordine nei miei ricordi.

Il festival del jazz con un  grande Daniele Sepe a fondere i ritmi del Jazz con le sonorità mediterranee. Un sax profondo a tracciare sentieri indelebili su cui si incamminava la voce  scintillante di una minuta signora svedese divenuta napoletana per amore del Sud. Le feste gastronomiche nelle Gnostre, che poi erano delle corti ricavate chiudendo gli spazi sui tre lati e lasciando aperto quello che dava sulla strada principale… Noci era in forte espansione qualche secolo fa e bisognava costruire le case per i nuovi abitanti e quella fu la soluzione geniale, funzionale e intrigante, bella e  foriera di tanta coesione comunitaria… la social catena di cui parlava Leopardi. Era quello il segreto per vincere la battaglia della vita contro la natura matrigna o forse la maledetta cupidigia degli uomini, ma adesso basta. Mi impongo. E chiudo gli occhi.

Mi scuoto al richiamo del cellulare. Rispondo ad un numero sconosciuto come non faccio mai ma qui é diverso. Intuisco che la telefonata parta da qualcuno del Festival.

“La stiamo aspettando. Alle nove e mezza tocca a lei.”

Rinuncio alla doccia.

Mi vesto, jeans e camicia bianca, di lino. Mi ero portate le babouche acquistate a Fes dai maestri pellettieri nel quartiere degli antichi mestieri da dove si dominava la distesa delle concerie che mi erano apparse come l’inferno dantesco, poi indosso delle più tradizionali scarpe estive leggere che mi consentiranno di camminare più spedito.

Arrivo ad una piazza, grande ed alberata, ricca di locali. É piena di gente secondo tradizione a Sud. Chiedo lumi non fidandomi di Google map.

Sul lato della piazza si apre un vicolo lastricato.

É l’ingresso al centro storico. Devo andare di là, mi han suggerito, ed io mi incammino ma é difficile districarsi in un labirinto di strette vie girate da bianche case che corrono talora ordinate altre volte con guizzi eccentrici di fantasia che finiscono in corti cieche o si nascondono dietro angoli difficili da indovinare. Fiori e piante ornano scale ed usci mentre grumi di gente si attarda come massi ben piantati e altra scorre come corrente di un fiume cheto o impetuoso. 

Nel centro storico vi sono piazze e piazzette, larghi e “gnostre” che ospitano senza soluzione di continuità le performance dei protagonisti del festival  letterario.

Si comincia alle sette e mezza e si finisce alle undici.

Ce n’è per tutti i gusti.

Saggi, romanzi, poesie, letture, discussioni…Io mi inoltro alla ricerca della mia piazzetta, in Largo Torre.

Di nuovo suona il telefono. È Orazio il marito di Giusy, la professoressa che dialogherà con me. Bisogna sbrigarsi. Do un punto di riferimento e mi fermo. Arriva a prendermi. “Faremo prima” mi ha tranquillizzato. Infatti in due minuti é qui e in un altro minuto raggiungiamo Largo Torre attraversando stretti vicoli bianchissimi, scalette in corrispondenza degli ingressi di casa, panni  stesi alle finestre e gente che va e viene.

C’è vita nel vecchio bellissimo borgo.

Pulsa di vita vera.

Qui la “Gentrification” non sanno cosa sia, per fortuna, e nemmeno la esibizione di sguardi fintamente sognanti.

La gente ci abita e ci vive, ogni santo giorno, ogni ora di tutti i santi giorni.

É gratificante sentirsi avvolti dalla vita che scorre. Ecco la piazzetta. Incastonata tra case sempre bianche. É piena di rientranze e sporgenze frutto della antica edilizia spontanea, funzionale, essenziale, pulita. Bella, in una parola. Un groviglio di stradine la intersecano. In fondo una via più ampia ne segna il limite esterno e conduce verso un’altra piazza.

“Perché si chiama Largo Torre” chiedo. “Qui vi era una torre che segnava l’ingresso nella Città” mi spiega Giuseppe che è giunto con  Rosanna dalla Costa Peuceta per ascoltare la storia di Cammini a Sud.  Sono felice quando li intravedo tra il pubblico. Si tratta di un’amicizia virtuale tutta nata e sviluppatasi sui social. Una mattina avevo aperto l’iPhone ed ero rimasto fulminato da due occhi grandi e neri, pieni di luce… ne era nata una poesia tutta dedicata a quegli  occhi sconosciuti. Poi era arrivato Giuseppe, anch’egli ricco di passione per questo Sud tutto da reinventare. Adesso erano qui. Finalmente, a conoscerci di persona. Potenza della letteratura, della poesia, dei sentimenti. Riescono a dar vita anche alle storie virtuali. Ci siamo abbracciati.

La presentazione è partita senza preliminari. Antonio introduce il tema parlando di Rocco Scotellaro e Tommaso Fiore, due giganti del pensiero e della poesia a Sud. Io penso a Vittorio Bodini…

“Tu non conosci il Sud, le case di calce

da cui uscivamo al sole come numeri

dalla faccia d’un dado.”

Eccolo il Sud bianco di calce ed eccole le case da cui frotte di bambini e uomini uscivano come numeri dalla faccia di un dado.  Ci sono immerso in questa piazzetta.

La gente è divenuta silenziosa.

Si è esaurita la corsa di commenti e crocicchi della precedente conversazione.

Giusy mi stimola con le sue note puntuali. Non si dilunga. Vuole che sia io a parlare. Lei mi detta i temi suscitati dalle emozioni della lettura, intensa e partecipata dal tono e dall’intensità delle sue evocazioni…il tempo scappa via…non ho una serata a disposizione e dell’ora concessami qualche minuto se l’é preso il fascino del labirinto ed anche le dotte citazioni di Antonio.

Racconto la memoria dei popoli del Sud  cercata attraverso i sentieri ed i tratturi e intravista negli sguardi degli anziani che passeggiavano in piazza all’imbrunire quando noi si arrivava dopo aver percorso trenta chilometri, nei borghi abbandonati sui monti o accucciati nelle valli delle terre di mezzo.

Come qui, adesso.

Racconto del mio recente viaggio in Marocco, a Fes. Nella Medina, grande come una metropoli, puoi trovare la dimensione del villaggio tanto é viva la forza della comunità, osservo.

Lì ho colto il senso della misura e del limite, gli stessi intravisti negli occhi della gente incrociata tra le terre di mezzo. Vado alla conclusione… il tempo incalza. É nel senso del limite e della misura l’antidoto contro l’abbrutimento del consumismo che ha divelto la dimensione primordiale e cancellato i valori ancestrali.  La penso esattamente come Camus che aveva intuito il pericolo già all’indomani della seconda guerra mondiale. La penso come Pasolini che come un profeta inascoltato levava la sua voce intrisa di rabbia e soffocata dalla tristezza negli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Giusy si scusa… non c’è tempo per argomentare tutte queste provocazioni…ma la lettura di “Cammini a Sud” sarà illuminante e coinvolgente, afferma congedando il pubblico.

Io le sono grato.

In fondo il  romanzo si chiude con l’ode a Don Chisciotte che evoca la forza della fede nelle idee giuste che portò l’eroe di Cervantes a non arrendersi a costo di vestirsi di pazzia, la stessa pazzia che portò re Leonida a morire alle Termopili con i suoi guerrieri, uno dopo l’altro, per dare il tempo all’esercito degli opliti di organizzarsi e ributtare oltre il mare gli invasori. 

 

Finalmente mi godo il fresco della sera. Rosanna e Giuseppe sono ripartiti lasciandomi un senso di calore insperato. Giusy e Orazio si fermano un attimo. Il loro entusiasmo mi sopraffa. Poi rimango solo. E mi lascio prendere dai comignoli delle vecchie case rivolti verso il cielo ad indicare luna e stelle e mi perdo nei vicoli e nelle corti, che qui chiamano “gnostre”.  Mi imbatto nelle altre piazze dove fervono ancora le conversazioni letterarie. Defilati i banchetti dove é possibile acquistare, sfogliare, i libri di cui si parla.

Signori ecco il Sud che non si arrende.

Che sogna lontano dal caos balneare e dal brusio della “Gentrification” per miliardari annoiati e potenti snob. Qui c’è il popolo di formiche di Tommaso Fiore, la poesia visionaria di Rocco Scotellaro, la malinconia annegata nella luce di Vittorio Bodini. Qui c’è il Sud che scava nella  sua memoria e non è detto che non la ritrovi.

Anzi.

Ci ho impiegato un po’ per tornare in albergo. Ma l’ho fatto a bella posta. Mi sono fermato a guardare la facciata della  Collegiata, con la lunetta che sovrasta il portale d’ingresso che rimanda ai tempi dell’architettura romanica, mi sembra  vi siano reminiscenze anche gotiche, normanno-sveve, certo sopraffatte dal barocco settecentesco, comunque ben visibili e mi sono fermato ad osservare i tre  campanili che vegliano sulla città. Il biancore del borgo mi ha accompagnato ovunque sino al limitare della parte nuova. Poi ho guadagnato l’albergo. Mi é rimasto il desiderio di vedere la chiesa della Madre di Dio in località Barsento ma é fuori dalla città, sulla via per Monopoli prima del Canale di Pirro. Sarà per un’altra volta come un’altra volta andrò a rivedere l’abbazia della Madonna della Scala con il convento dei Benedettini dove risuona ancora il Gregoriano.

Mi alzo presto. La mia notte è diventata tumultuosa. Difficile inanellare ore ed ore di sonno. Mi fan buona compagnia la fantasia e la memoria, la scrittura e la lettura. La poesia.

Questa mattina alle nove verranno a prendermi. Destinazione Monopoli da dove riprenderò il mio treno.

Sulla via del ritorno leggo un segnale “ chiesa della Madonna di Barsento”.  Luca, che mi osserva, ha capito tutto dal mio sguardo. “Una deviazione la possiamo fare” mi dice “abbiamo un po’ di tempo.” Così imbocca la stradina laterale.

Eccola lì la chiesa della Madre di Dio a Barsento. Umile come sanno essere le chiese di campagna. Si staglia contro il cielo azzurro con il candore della calce bianca che tutta la riveste. Vi è un piccolo ingresso sotto forma di tempietto. Al di sopra si innalza la facciata di sapore romanico protesa al cielo dove la spingono come una freccia le parti laterali di essa con la cuspide  che, a forma di rustico campanile in cui trova alloggio una piccola campana, si innalza a punta. Lateralmente vi sono delle sporgenze. Probabilmente le navate o delle cappelle. La chiesa è chiusa e non possiamo entrare a vederne l’interno. Ma già così è commovente. Mi pare di intravedere i segni di una impostazione protocristiana addirittura. Comunque è un concentrato di memoria oltre che di fede. Poco distante la mole compatta di un’antica masseria. Bianca anch’essa. Intuisco una scalinata esterna che conduce, chiusa da un alto muro,  al piano superiore. “Adesso ci fanno degli eventi” mi informa Luca che è rimasto accanto a me incantato anch’egli da tanta grandezza.

Ripartiamo… adesso non possiamo più accumulare ritardi.

E durante il tragitto, mentre dal finestrino scorre il canale di Pirro, le bellissime campagne, le querce, gli olivi, i carrubi, i mandorli, i noci, le vigne, scendiamo verso il mare.

Luca è un attore, ama il teatro da quando una maestra intelligente portò la scolaresca a vedere un’opera di Goldoni. Fu amore a prima vista.

É un “immigrato” Luca.

É arrivato a Noci vent’anni fa. Da Venezia.

E non se n’è più andato. Ha messo su famiglia. Due bimbi di cinque e sette anni. Si sente che è innamorato. Innamorato dei suoi bimbi, di sua moglie, di questa terra, del Sud anche se non ci é nato e vi é solo arrivato.

Ma questa è la storia del Sud. Con le genti che arrivavano, magari come conquistatori e si fondevano con le genti del posto dividendo con queste destino e patria.

É una bella storia quella di Luca. Può essere anche un segno. Perché no. Il segnale che la memoria del Sud è viva e conquista anche.

“Grazie Luca. Bella Noci e bello il vostro festival  letterario” gli lancio chiudendo lo sportello e avviandomi verso la stazione.

Il sole é ormai alto, luminoso e caldo ed io mi lascio avvolgere da esso, tanto é l’entusiasmo di aver riscoperto questa terra orgogliosa e protesa verso il futuro.

La banchina del treno pullula di gente… si sentono tante lingue. Vanno tutti in direzione del mare.

Non sanno cosa si perdono a non salire verso l’altra Puglia… penso sorridendo tra me.

 

 

 

Antonio Corvino