Capaccio Paestum-Trentinara

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già stati ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggi del racconto sono due comunità storiche del Cilento, Capaccio Paestum e Trentinara in Campania. Capaccio Paestum, una cittadina multipolare, collocata nella piana del fiume Sele, di circa 19.000 abitanti con la presenza di monumenti dell’antica colonia greca  e di un prestigioso museo, nota anche per essere un eccellente centro di produzione della mozzarella di bufala. Trentinara una comunità arroccata su uno sperone del Cilento dalla cui terrazza panoramica si può ammirare un paesaggio unico.(N.d.R.)

 

28-30/luglio 2024

A Paestum inizia il Cilento disteso tra i Monti Alburni ed il Vallo di Diano ad Oriente, la valle del Sele a Nord, i Monti Lucani a Sud, il Tirreno infinito come un Oceano ad Ovest.In esso la Grecia e Roma han lasciato un segno indelebile e la Natura un pieno di magia.

Il mare si protende verso la terra fecondata dal fiume Sele creando il golfo oggi noto come Golfo di Salerno.

Enea vi transitò in viaggio verso il destino e Palinuro, suo nocchiero, vi trovò tragica fine in fondo al promontorio dalle rocce a strapiombo ricco di grotte, gole  e cavità. 

Le sirene con il loro canto facevan  vorticare le acque e girare i venti alimentando il mito della loro bellezza che ammalia i naviganti per poi perderli  tra le rocce aguzze.

Qui la venerazione cristiana per la Madonna del Granato si sovrappose al culto pagano  di Era/Giunone dea della fertilità  espressa, al tempo dei Greci e dei Romani, dalla melagrana (granata) sacra alla Sposa di Zeus/Giove.

Edicola Madonna del Granato – Capaccio-Paestum

Sulle pendici del monte Soprano,  su cui gli abitanti di Paestum si spostarono a seguito della diffusione della malaria, essi  ricostruirono il tempio di Era che dominava l’insediamento realizzato dai Greci  lungo la costa al tempo del loro arrivo intorno al settimo secolo prima di Cristo.

Sul tempio di Era, in epoca  cristiana, fu poi  innalzato il santuario della Madonna  Assunta qui denominata Madonna del Granato e raffigurata con una melagrana nelle mani ad esprimere la continuità della primordiale dimensione ancestrale che alla fertilità della terra e delle genti affidava la felicità dei popoli, il loro progresso e la stessa capacità di vivificare i territori.

I riti della fertilità vengono tuttora evocati nel borgo antico il 15 di agosto, giorno in cui si celebra  l’assunzione in cielo della Vergine Madre del Dio cristiano, mi informa Francesco Saverio frequentatore assiduo del borgo antico, dove abbiamo soggiornato di ritorno da Brindisi di Montagna  e dalla Foresta della Grancia in terra di Lucania dove abbiamo disquisito di Sud e di futuro delle genti in esso ancora insediate e che espatriano condannandolo a  prospettive di abbandono e desertificazione.

Di prima mattina, mi racconta, indicandomi la massa rossiccia della seicentesca fabbrica del santuario, il 15 di agosto le donne di Capaccio-Paestum muovono in processione dal sagrato della chiesa parrocchiale con le “Cente”benedette dal parroco  issate sul capo. Esse raggiungono così il Santuario della Madonna del Granato sulle pendici del Monte Soprano che incombe sulla piana del Sele in direzione della costa, implorando fertilità per sé e tutta intera la comunità ed abbondanza di frutti per la loro terra.

Il rito, continua Francesco Saverio,  inizia la sera del 14 agosto con  la preparazione delle “Cente”.

Sono, le “Cente” delle ceste a forma di nave con i bordi sovrastati da candele e ricolme di frutti simbolo appunto  di fertilità ed abbondanza. Qualcuno, azzarda Francesco Saverio,  ha intravisto in quelle ceste a forma di barca addobbate con una cornice  ininterrotta di candele accese, l’eco dei riti funebri dei Vichinghi che affidavano al mare, alle barche ed al fuoco l’ultimo viaggio dei loro eroi…É intrigante l’ipotesi. Molti popoli del nord giunsero da queste parti con la dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente, in cerca del sole e della luce, della gloria e della ricchezza in uno con l’ebbrezza della civiltà. Ma conveniamo entrambi che si tratta di ipotesi ardita che smentirebbe l’ancestrale rito dela fertilità propria dei popoli mediterranei, nei riti pagani ed in quelli cristiani.

Così, la mattina del 15 di agosto, giorno dedicato dalla Chiesa cattolica alla festività dell’Assunta, ha luogo, riprende a narrare Francesco Saverio, la  suggestiva processione che lega rito pagano e  celebrazione cristiana.

Essa si snoda attraverso un percorso tortuoso che le donne compiono recando in testa le “Cente” preparate la sera prima.

Dopo la benedizione del prete, il corteo si reca al Santuario mariano del 1600 costruito dove prima vi era il tempio di Era/Giunone sul monte Soprano il cui pendio ricco di boschi degrada in direzione della costa su cui si innalzava la prima Paestum con i suoi templi maestosi.

Qualche anno addietro sempre accompagnato da Francesco Saverio mi recai nell’area archeologica in cui sorgeva la città di Paestum, costruita dai coloni greci qui giunti dall’Egeo dopo aver lasciato la madre patria.

Era maestoso l’impianto della nuova città: si stendeva a ridosso del mare ed era protetta dai monti che si innalzavano alla spalle, verso l’entroterra.

L’area destinata ai templi ricchi di colonne dai dorici capitelli a custodire la sacra cella con la statua della divinità  e sovrastati all’ingresso dal frontone che racchiudeva il timpano ricco di marmi, era sorprendente per la sua estensione, per il pregio dei sacri edifici, la bellezza architettonica del loro sviluppo e la grandezza del loro impianto. 

Tra tutti dominavano il tempio dedicato a Poseidone che diede il nome, Poseidonia, alla città greca prima che questa divenisse la romana Paestum , quello  innalzato ad Era e quello sacro a Minerva. C’era di che perdersi tra quella meravigliosa testimonianza della civiltà  greca poi divenuta romana.

Per l’intero giorno vagammo tra quei templi incapaci di saziarci della loro vista ed evocando le suggestioni che impressionarono l’animo di Goethe che vi giunse al culmine del suo grand tour in Italia. Il sommo poeta e scrittore tedesco scoprì la grandiosa magnificenza di quei templi consacrati agli dei pagani dell’Olimpo inoltrandosi tra la selvaggia vegetazione che ricopriva l’intera piana. Fichi selvatici, rovi ed arbusti della macchia mediterranea ricoprivano quella meravigliosa testimonianza del mondo classico.

Mandrie di mucche podoliche pascolavano nelle radure che si aprivano nei dintorni tra i boschi che degradavano dai monti  verso il piano. Era davvero grandiosa quella civiltà che era stata in grado di costruire non solo città e templi ma anche un sistema di pensiero e di conoscenza giunti sino ai tempi moderni e che anzi a questi avevano fornito strumenti e leve per ulteriori progressi.

Non si trattava di una civiltà costruita sul benessere e per il benessere materiale del suo popolo. O almeno non solo. Era grandioso l’impianto del pensiero trascendente anche, che poi nella religione cristiana avrebbe trovato continuità. A Paestum, nel museo dell’area archeologica, era esposta la cosiddetta tomba del tuffatore. Un sarcofago destinato, negli intenti delle genti che avevano  dato vita a quella civiltà, a rimanere segreto e sepolto per i tempi dei tempi  a celebrare, con i dipinti a fresco che illustravano le pareti interne, la ricerca e forse il raggiungimento della vita ultraterrena compiuta dal giovane defunto in quello deposto a riposare.

Sulla faccia interna della lastra che chiudeva il sarcofago la figura di un tuffatore nell’atto di slanciarsi verso le crustalline acque sottostanti. Una rappresentazione dei riti iniziatici che avevano immaginato vita e felicità eterna ben prima dell’avvento di Cristo da cercare e conquistare attraverso la virtù ed una vita che rifuggisse dalle derive edonistiche e sensuali rappresentate sulle lastre laterali dove scene di banchetti lascivi rappresentavano la rinuncia  dell’iniziato ad una vita vissuta nel vizio, nelle crapule e nei bagordi.

Un intero trattato di iniziazione alla felicità della vita ultraterrena era rappresentato sulle lastre della tomba che gli archeologi avevano definito del tuffatore e che aveva trovato a Paestum il luogo di elezione.  D’altronde a poca distanza da Paestum un’altra città greca, Elea poi divenuta Velia in epoca romana, aveva visto nascere ed affermarsi la filosofia di Parmenide e del suo allievo Zenone che aveva dato senso compiuto al concetto dell’essere immutabile in alternativa al non essere ed alla contrapposizione degli opposti destinati comunque a conciliarsi nella filosofia presocratica che in Eraclito, nella Madre Patria, aveva trovato l’assertore del divenire sintetizzato nell’affermazione che tutto scorre ( panta rei in greco)  e ciò che adesso è non sarà tra un istante pur rimanendo immutato nel suo archetipo costitutivo come nel fiume sempre uguale a se stesso ma anche diverso per l’acqua che scorre e che ci bagna.

Era quindi normale che qui a Paestum si sviluppassero i riti iniziatici e trovassero  adepti sempre più numerosi dediti alla ricerca di una spiritualità al limite della trascendenza mistica che sarebbe stata sviluppata dai teologi cristiani a cominciare dall’africano Agostino d’Ippona che fu protagonista consapevole della transizione  dal paganesimo al cristianesimo per giungere alla summa teologica del roccaseccano Tommaso d’Aquino.

Trova quindi radici nel passato la spiritualità che tuttora permea questa terra e che trova nella bellezza un segno della benevolenza divina, si tratti degli dei dell’Olimpo o del dio cristiano. 

Gli abitanti di paestum, mi aveva spiegato sempre Francesco Saverio, si erano ormai da secoli ritirati sui monti per sottrarsi alla malaria che l’avanzamento delle coste aveva provocato imprigionando acquitrini e paludi alimentati dal corso  delle acque del Sele.

E sul monte che aveva protetto Paestum  vi avevano ricostruito anche i templi, primo fra tutti quello dedicato al culto di Era, madre della terra e dea della fertilità delle genti, che con il crollo dell’impero romano e la fine del paganesimo confluì  nella cristianità.

La mattina a Capaccio era la campana della torre dell’orologio a svegliarmi battendo le ore. Ed era un risveglio armonioso che annunciava un bel giorno sottolineato dal silenzio che ti circondava dappertutto.

Perché qui sul borgo, un migliaio di abitanti, la vita procede con ritmi lenti, scandita dalle campane che battono anche i quarti d’ora ed invitano al lento andare avvolto dai monti che circondano Capaccio-Paestum.

La circondano e la avvolgono tutta lasciando libero il lato fronte mare dove si distende l’altra Capaccio-Paestum.

Quella grande molte migliaia di persone… 18.000/20.000.

Quella  con la ferrovia che la collega con Napoli e Salerno.

Quella con i supermercati ed il caos cittadino, il litorale ed i lidi dove  andare a stendersi al sole, abbronzarsi e fare il bagno…

Certo qui giù rimangono i templi testimoni della gloriosa Piseidonia poi divenuta Paestum … un colpo allo stomaco da levare il fiato per la magnificenza  come già avvenne a  Goethe e la tomba del tuffatore con la sua arte superlativa destinata al defunto e l’idea della vita trascendente per chi ha vissuto nella virtù.

Cortile di Capaccio-Paestum

La spiritualità, il lento procedere del pensiero, la simbiosi tra anima e natura, beh quelle sono oggi retaggio pressoché esclusivo dell’umanità ritiratasi sul monte e dell’umanità che dalla metropoli e dal caos della pianura se ne torna qua sopra, sia pure di tanto in tanto, per ritrovare il silenzio e la propria dimensione più intima e religiosa che non necessariamente deve essere frutto di fede ed anzi prelude al connubio di sé con lo spirito dell’universo.

Lo fa il mio amico Francesco Saverio che talora mi coinvolge in questo viaggio spirituale laico ed umanistico.

Così come lo faceva nell’ottocento lo stesso Degas che abbandonava il suo palazzo napoletano in piazza del Gesù per trasferirsi qui e rifugiarsi nella sua casa immersa nel silenzio che tanto somiglia alla beatitudine della trascendenza del tuffatore.

Intorno a Capaccio-Paestum si dispongono in successione e corona un grumo d’altri borghi.

Siamo in Cilento, la natura è generosa, la bellezza deborda da ogni parte, i monti si dispongono ovunque verso l’orizzonte, la valle, in fondo, é attraversata dal fiume Sele che regala acqua e fertilità generosamente ed i borghi non mancano d’incanto anzi…

Prendete Trentinara… ad un tiro di schioppo da Paestum-Capaccio. Affacciata ad un balcone  che si apre tra i sei ed i settecento metri di altitudine a seconda del punto dove vi fermate. Con picchi che spuntano dovunque ed un orizzonte mai banale o scontato.

É ormai l’imbrunire quando scendiamo dalla casa di Francesco Saverio che si sviluppa in alto per piani successivi. É Francesca, moglie di Francesco Saverio, con noi già nella Foresta della Grancia a Brindisi di montagna, ad insistere per raggiungere Trentinara. “Un gioiello” dice “incastonato sui monti che si innalzano sopra Capaccio-Paestum e che rivelano una successione di orizzonti e di luce al tramonto impareggiabili.”

E prendiamo a salire lungo una stradina tortuosa che si inerpica, tornante dopo tornante, in alto dove prende forma il borgo di Trentinara abbarbicato su un poggio a sua  volta circondato da picchi superbi che lo proteggono da ogni parte a nord e ad est come a Sud. Solo ad occidente, come già  per Capaccio-Paestum, la vista corre libera verso il mare.

 

Un colle isolato si dispone come una piramide naturale  sul lato in direzione nord a rendere unico il panorama che poi dilaga ad Occidente perdendosi nel Tirreno.

Il sole sta ormai tramontando quando parcheggiamo l’auto a ridosso del borgo e saliamo inoltrandoci per le stradine linde e lastricate, costellate di fiori. 

Corso di Trentinara

Giungiamo sulla piazzetta che si affaccia sul belvedere. É punteggiata da alcuni alberi e segnata da piccole panchine su cui anziani signori conversano immersi nella luce del tramonto ormai incombente. La calura estiva ha smesso di mordere e comunque qui essa é attutita dall’altitudine.

L’aria è pulita e l’orizzonte terso. La corona dei monti ricoperti da boschi di un verde acceso sembra tutta orientata ad accompagnare la vista verso il mare infinito. 

L’atmosfera è distesa.

Salendo ho potuto osservare delle signore sedute in ronda  a conversare per strada in prossimità dell’uscio di casa. Qualche ristorante si prepara a ricevere i suoi avventori che non sono mai una folla.

Intanto il sole scende ad Occidente diffondendo i suoi bagliori rossastri.

Si, è vero, il sole al tramonto é sempre uguale eppure non ti ci abitui mai al miracolo del suo quotidiano morire.

Il cielo si tinge di rosso.

Il disco è divenuto una palla infuocata che rapidamente scende  in direzione del mare.

In fondo si intravede la silhouette di Capri.

Una farfalla che risplende agli ultimi raggi solari. L’aria diventa ovattata, le sfumature arancio la dipingono tutta e scolorano via via verso il rosa, dall’altra parte svanza l’imbrunire viola mentre il disco sprofonda nel mare e regna il silenzio.

Vi è una piccola via che si arrampica in su.

Intorno ad essa si aprono vecchie case e vicoli laterali vi confluiscono. Ad intermittenza si susseguono degli archi, a guisa di ponti sovrastati da abitazioni e intime piazze si allargano come salotti in attesa. Su di essi si affacciano minuscole botteghe. La percorro da solo. Francesco Saverio e Francesca mi aspettano al belvedere immersi nella luce residua  che precede la sera immersa nella luce blu. Salgo da solo. Sono rade le presenze. Ti salutano gentili. Io procedo curioso di dipanare la stradina che si avvolge come una chiocciola. Su uno spiazzo laterale un ristorante minuscolo attende. Sull’angolo dalla parte opposta un negozietto pieno di cesti intrecciati con canne di palude e listelli degli arbusti della macchia mediterranea osserva. Sull’uscio due signori siedono su delle sedie di legno. Li saluto. Uno ha una barba bianca, lunga, che scende compatta fino al petto. Una canotta grigia e dei bermuda  consunti  ricchi di tempo. Magro e dalla corporatura nervosa. L’altro veste una camicia vecchia a quadri con  le maniche lunghe ed indossa dei pantaloni lunghi. Ha il viso pulito e lo sguardo pacifico. É più anziano, certo sul limitare della vecchiaia. Entrambi rispondono al mio saluto.

Il signore anziano nota il mio sguardo curioso che esplora l’interno pieno zeppo di panieri di tutte le misure e le fogge. Si alza e senza dir nulla accende la luce. La stanza si illumina e brillano il giallo delle canne ed il bruno dei listelli che debordano dal soffitto e dalle pareti laterali. É casa e bottega. Chiedo al signore dal viso pulito, gli occhi buoni e avanti negli anni se li produce lui quei cesti. Mi risponde di si e con le braccia me li indica orgoglioso. Intanto il signore dal fisico nervoso gli occhi guizzanti e la lunga barba si è alzato e si  avvia per la stradina che sale. Saluta il vecchio. Lo saluto anch’io e riprendo a salire affiancandomi all’altro. “Dove porta questa stradina?” Domando. “Sale sopra” mi risponde quasi svogliato, indolente, ma di un’indolenza complice e partecipe come a dire che non ha importanza dove porta. L’importante è che avanzi… “gira per intero la parte alta del monte e scende di nuovo sulla piazza del Belvedere” mi spiega infine. Intanto é arrivato a casa. Una piccola  casa con una vecchia porta di legno anticipata da una tenda di stoffa e canne. Sarebbe piaciuta a Van  Ghog. Mi saluta e prima di sparire mi guarda e mi fa “ tutte le strade portano da qualche parte”.

É tempo che anch’io torni sui miei passi e mi ricongiunga con i miei amici. Lo faccio con un senso di pace probabilmente appartenente ad altri tempi   qui per incanto affiorati con i pensieri di filosofia esistenziale suggeritimi dai miei  ultimi interlocutori.

 

Sui costoni dei  monti che ci vengono incontro, mentre scendiamo verso Capaccio-Paestum, un rosario di Santuari si dispiega … compare anche e nuovamente all’orizzonte il  santuario della Madonna della granada … tra qualche giorno, il 15 di agosto, le donne del posto vi andranno in processione, recando sulle teste le Ceste dalla forma di barche illuminate dalle candele accese, ad implorare fertilità come un tempo le loro progenitrici facevano con Era/Giunone a cui era sacra la melagrana ereditata dalla Vergine Madre del dio del nuovo testamento.

Chiesa di Trentinara

C’è di che perdersi tra antico e contemporaneo…a Paestum-Capaccio, Trentinara, Cilento in un tempo che sembra essersi fermato nel suo essere immutabile come affermavano Parmenide e Zenone e che pur tuttavia avanza  sempre uguale e sempre diverso come sosteneva  Eraclito.

Antonio Corvino