Beneventum. Da Mefite alla Madonna delle Grazie, da Iside alle Janare

Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già ospitati altri report letterari dello stesso autore per offrire ai nostri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è il territorio di Benevento, una città  di oltre 56.000 abitanti in Campania. Città con una lunga storia, tappa importante della vecchia e nuova via Appia verso Brindisi, con un arco di Traiano edificato per celebrare il nuovo e più agevole percorso della via Appia. Città fondata da Diomede, come si tramanda, prima sannita, poi romana, longobarda, per piu di 800 anni governate dallo Stato pontifcicio, fino al 1860 quando fu inglobata nel nuovo regno di Italia. Una città cui I Romani cambiarono nome per una battaglia vinta, da un originario Malies trasformatosi in Maleventum a Beneventum. Città in cui mori da prode Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, combattendo contro gli Angionini, per difendere il regno. Un luogo magico  ricco di monumenti e anche di antiche vestigia legate alle religioni misteriche di origine egiziana. (N.d.R.

 

Benevento è attraversata dal Calore che segna l’intera piana su cui la città è costruita e dal Sabato che nel Calore confluisce. E proprio nell’angolo che segna la confluenza dei due corsi d’acqua sorge la basilica della Madonna delle Grazie. Si tratta di una chiesa dalle linee neo classiche, iniziata nella seconda metà del mille ottocento e conclusa all’inizio del secolo successivo.  Essa si trova laddove esisteva una più antica chiesa addossata ad un convento, quello pure risalente al mille e quattrocento ma ricostruito più di una volta a causa di terremoti e guerre. Sembra che sul luogo in cui oggi sorge la basilica dedicata alla Madonna delle Grazie sorgesse il tempio di Iside o di Osiride che di Iside era fratello e sposo. É questione controversa perché a parte Apis il bue sacro ad Osiride, non sono emerse tracce del tempio. Al contrario vi sono chiare evidenze che in Santa Sofia, la Basilica cattolico-longobarda simbolo della prima cristianità di Benevento e del potere dei Longobardi qui giunti all’indomani del crollo di Roma, sia stato inglobato il tempio di Iside ad essa preesistente. In questo caso sono molte le tracce. Dall’obelisco egizio alla sfinge, dal leone incastonato in cima al campanile della Basilica alle colonne che ne ornano la facciata e la pianta circolare interna. È comunque indubbio che a Benevento molte cose, compreso il mito delle Janare, riportino ad Iside. Furono le sacerdotesse di Iside, una volta tramontato il culto della dea e distrutto il suo tempio ad essere degradate a streghe, accusate di essere dedite a pratiche demoniache ed a esercitare l’arte delle guarigioni insegnata loro dal demonio. Divennero le Janare e, nella credenza popolare, presero a riunirsi per i loro sabba le notti di luna piena intorno ai grandi alberi di noce. …

In Santa Sofia la presenza di Iside è inconfutabile ma è palpabile anche in Santa Maria delle Grazie.

Il culto egizio, a ridosso del passaggio all’era cristiana, aveva conquistato Roma e Pompei e, appunto, Benevento. Anzi, soprattutto Benevento che risultò via via disseminata di presenze, obelischi, templi, anche, egizi. E la faccenda della chiesa della Madonna delle grazie?

Beh da queste parti un bel giorno emerse dal terreno Apis, il bue sacro agli egizi.

Grande ed imponente con un enorme basamento che lo ospitava. Segno evidente, si dedusse, che vi dovesse essere il tempio di Iside. Forse addirittura anche un secondo tempio dedicato ad Osiride, fratello e sposo di Iside che con lui aveva concepito Horus il dio del sole raffigurato in braccia alla madre pronta ad allattarlo. Oltre ad Apis sacro ad Osiride vi sono in Benevento testimonianze di Horus raffigurato sotto forma di falco.

Insomma vi era più di qualche motivo per immaginare che alla confluenza del Sabato con il Calore fiorisse il culto egizio di Iside ed Osiride, di Horus e Apis confluiti per un verso nelle architetture della Basilica di Santa Sofia e per l’altro, ben  occultato data la natura sacrilega ed incestuosa del rapporto divino tra Iside ed Osiride, nella vecchia chiesa dedicata alla Madre di Dio andata distrutta ed  oggi sostituita dalla sontuosa, ed un po’ pretenziosa, chiesa dalla facciata e dal colonnato di ispirazione neoclassica con tanto di timpano a chiudere la parte superiore.

All’interno della chiesa, la cui navata centrale corre veloce, lungo una duplice fila di eleganti e snelle colonne di marmo, verso l’abside raccolta intorno all’ampia nicchia che sovrasta l’altare, la Madonna  delle Grazie domina lo spazio che si distende lì davanti.

Nella nicchia illuminata a giorno e risplendente d’oro, la statua della Vergine avvolta in un manto azzurro mostra il seno destro scoperto mentre con il braccio sinistro sostiene l’infante Gesù.

É tardi quando ci arrivo con Francesco Saverio venuto a prendermi da Napoli. Domani abbiamo l’assemblea costituente del movimento per l’Unità Mediterranea. Abbiamo deciso, un gruppo di epigoni degli eroi romantici condannati dalla storia alla sconfitta o di  folli don Chisciotte in vena di imbracciare l’armi in difesa del pensiero e dell’identità meridionale  nonché dell’integrità Mediterranea, scomparse nelle  brume maleodoranti del villaggio globale, di chiamare a raccolta quanti non si rassegnano alle scivolose derive dell’aberrante contemporaneità. Sono ormai le dieci di sera.  Un’orario insolito per recarsi in chiesa. E comunque il tentativo lo facciamo ugualmente. Male che vada potremo contemplare la possente figura di Apis all’imbocco del viale San Lorenzo e intravedere, in fondo, come un’apparizione, la bianca facciata della chiesa avvolta in un tripudio di verdi luci fluorescenti. Siamo fortunati. Un folto gruppo di fedeli sta uscendo proprio nel momento in cui noi sopraggiungiamo. Mi affretto, mentre Francesco Saverio mi attende in auto, e corro verso l’ingresso. Supero il bel porticato ed il colonnato di sapore greco e penetro all’interno. Ormai la chiesa è deserta ma risplende di luce in ogni dove.  In fondo l’incarnato del volto della vergine e del bambino si stagliano contro l’azzurro del manto tempestato di stelle che avvolge la madre di dio vestita di una rossa tunica anch’essa costellata di astri. Gli stucchi color terra della cornice e il fondo dorato dell’ alcova fanno il resto attraversati da un’illuminazione, addirittura eccessiva. É magnetica la statua della vergine e ti chiama a sé. D’altronde l’intero tempio sembra costruito per convergere su di essa. Nei pressi dell’altare un gruppo di giovani frati si intrattengono in una conversazione che mi sembra fraterna e rilassata, tipica di chi ha appena concluso in comunione la lunga giornata e si accinge a ritirarsi in cella dove, breviario alla mano, si concentreranno nelle preghiere della compieta che precedono il sonno ed il riposo. É strano quel gruppo di giovani frati in un tempo in cui le vocazioni sacerdotali sembrano estinte. Può essere un buon segno, mi dico. Il mio agnosticismo intriso di laico razionalismo non mi impedisce di capire che la ragione ha bisogno di Dio quanto Dio della ragione.

Sono sorpresi dalla mia irruzione. Dico loro che sono reduce dalla presentazione del mio libro in cui si sussegue più di qualche spaccato di Benevento, dato che, inseguendo la memoria delle terre di mezzo, non potevo non  evocare  l’epopea  dei popoli italici ed in particolare dei popoli Osco-Sanniti che da queste parti avevano il loro epicentro. Sono  da poco stato  a Bojano altra capitale dei Sanniti, racconto, dove il sacro bove si  sarebbe fermato indicando ai giovani rampolli sanniti in cerca di una nuova terra, il luogo prescelto. Beh, rifletto ad alta voce con i frati che mi si sono stretti intorno, il bue è un animale totem che appartiene ai Sanniti oltre che agli Egizi. E mi sembra pertinente azzardare in questa coincidenza una delle ragioni dell’attecchimento del culto delle divinità egizie da queste parti. “Vi è anche” aggiungo “ la presenza delle divinità femminili ad accomunare Sanniti ed Egizi. Iside era per gli egizi la dea della fertilità della terra  e delle genti al pari di Mefite per gli Osco-Sanniti. É ragionevole che i Sanniti, avendo dovuto subire il declassamento di Mefite nell’Olimpo romano, si siano in qualche modo preso la rivincita con il culto di Iside. Non solo ma che con Iside abbiano accolto anche Horus suo figlio.”

Così dicendo con il braccio indico la statua della vergine sopra di noi che con il seno scoperto ed il bimbo in braccio, é la riprova della continuità del culto divino al femminile mai interrottosi nel corso dei millenni. Da Mefite si passa a Era ed Afrodite e quindi a Iside e da questa, infine, si giunge alla Vergine Maria. Tutte divinità che assommano la dimensione di madri di Dio e di garanti dell’abbondanza dei frutti e  della fertilità della terra e delle genti.

Non solo. Il culto di Iside, giunto da Alessandria per il tramite di viaggiatori, sapienti e sacerdoti imbarcati sulle navi che attraccavano a Brundisium e che raggiungevano Roma e prima ancora Benevento attraverso la Via Appia e la via Traiana, nel corso dei secoli, confluisce nella venerazione  della  Vergine Madre di Dio che come quella allatta suo figlio.

É troppo suggestiva ed intrigante la relazione per non esporla ai frati gentili ed appassionati che con me si intrattengono sulle storie di questo  territorio. Sono essi che mi spiegano la confluenza del fiume Sabato nel Calore e le vicende dei templi pagani e protocristiani che si sono succeduti prima dell’attuale grandiosa chiesa.

“D’altronde” mi spiegano alternandosi nel racconto “Benevento era una grande città. Contava duecentocinquantamila abitanti allora e quindi era giustificata la forte contaminazione dei culti religiosi così come la progressiva sovrapposizione di essi sino a giungere addirittura alla loro fusione”. É piuttosto sofferta questa ultima affermazione, me me ne rendo conto, ma ineccepibile.

Difficile per i miei interlocutori accogliere la tesi da me sostenuta che la statua lignea della Madonna a seno scoperto con il bambino in braccio possa essere l’erede di Iside ed Horus.

“Risale al 1500 la statua lignea della Vergine” mi dice frate Pasquale “ed essa, pur venerata dal popolo beneventano come la Madonna delle Grazie, in realtà raffigura la Madonna Immacolata. Il seno scoperto é metafora delle grazie divine che Ella dona al suo popolo mentre il bambino testimonia l’assenza di peccato nella Vergine sua Madre.”

“Egli” mi fa notare “ reca in mano il frutto del peccato originale che tuttavia non ha sfiorato la  Madre di Dio”. Mi sembra piuttosto contorta la spiegazione ma la accolgo lasciandola convivere con quella più laicamente affascinante della sovrapposizione delle due figure femminili e dei relativi culti.

Mi viene in mente che il Bambino potrebbe avere in mano un melagrana. Nel millecinquecento Michelangelo e gli artisti in genere sapevano bene che il frutto dell’Eden era un fico non certo una mela. E nelle mani del Bambino, recato in braccio da sua Madre nella nicchia sopra di noi, non mi sembra che vi sia un fico nè tanto meno una mela. Finisco per propendere si tratti di un melagrana simbolo di grazia ed abbondanza gradito alla Madonna Sua madre e prima ancora sacro ad Era, anch’essa confluita nel culto della Vergine Maria che spesso è raffigurata proprio con in mano una melagrana. Certo. Rammento di averne viste di tali immagini in quel di Paestum dove era assai presente e diffuso il culto di Era a cui si era sovrapposta la devozione per la Madonna del melagrana. É comunque fuor di dubbio la grande devozione del popolo di qui per la Madonna delle Grazie.  E in fondo mi conquista anche la fede ingenua dei giovani frati che di sicuro rappresentano una speranza per questo spicchio di Umanità radicata sulla valle del Calore con il monte Taburno da un lato ed i monti del Matese dall’altro a far da corona mentre a sud si intravedono i monti dell’Irpinia. Si è fatto proprio tardi. Bisogna chiudere mi dicono i frati sorridenti e benevoli. Mi fan dono dell’effigie della Madonna delle Grazie. “Sul retro” mi informano “ vi è la preghiera alla Madre di Dio Immacolata.” Saluto e ringrazio.

Per un momento li invidio per la loro capacità di pregare e di entrare in sintonia con lo spirito di Dio o dell’Universo. Chissà. E, all’improvviso, mi viene in mente l’implorazione del novizio che nelle steppe del deserto russo si rivolse al suo maestro anacoreta perché gli insegnasse  a pregare … «aiutami, la noia  mi assale allorquando mi predispongo alla preghiera» piangeva il novizio ed il maestro gli rispondeva misericordioso « non cedere alla noia. Continua a ripetere le tue preghiere sino a stancarti e vedrai che un bel giorno per incanto dio ti verrà incontro ».

E, stranamente mi ritrovo a rimuginare su questa storia, lieto di ritrovarmi alle prese con la nota di speranza intrisa di preghiera intravista questa sera in una chiesa per caso ancora aperta e custodita amorevolmente da fra Pasquale e dai suoi confratelli francescani.

Raggiungo Francesco Saverio che intanto ha approfittato del tempo a disposizione per mettere a punto il suo intervento di domani.

Sono stato molte volte a Benevento eppure penso che dovrò tornare ancora e con calma a cercare i segni di una civiltà che non è mai morta e che tuttavia stenta a ritrovare lo splendore antico. Lo stesso splendore che pur nascosto in una fede ingenua quanto incantata ho intravisto nelle parole e negli sguardi di quei giovani frati fuori tempo oltre che al di là di esso. Era una metropoli Benevento. Intorno, a pochi chilometri, Altilia, Aeclanun e Pietrabbondante le facevano corona verso Nord.  Ad Est Pompei che pure era stata città osca prima di divenire greca e romana. Oggi Benevento è una piccola città di provincia dell’entroterra, come si usa specificare per inquadrarne la posizione geografica che ne sottolinea la estrema perifericità nel linguaggio attuale.

Lo spopolamento è evidente sui colli e nelle valli che la circondano per non parlare delle montagne. Essa stessa ne subisce l’insulto. Ci mettiamo di nuovo in strada. Guadagniamo la via per Napoli. Ma prima costeggiamo le mura longobarde. Sono ancora superbe. Orgogliose. Cingevano la città sino a renderla inespugnabile.  Capitale del granducato di Benevento. Ancor prima Capitale dei popoli Osco-Sanniti. Punto fermo della cultura e della civiltà della storia italica. Più in là la rocca dei rettori e la Statua di Traiano… il suo arco di trionfo.  La cattedrale romanica bombardata e ricostruita.

E quel gioiello di Santa Sofia con, accanto, il chiostro medievale espressione e sintesi dell’arte oltre che della spiritualità più alta della stagione medievale… e nei pressi l’Hortus Conclusus, il liquido spazio intriso di laico misticismo dedicato alla memoria del Sannio…

Ed ancora la villa dei Papi, abbandonata pure quella e i vicoli intorno al vecchio teatro romano dove si dice vi sia, abbandonata anche quella, la casa natale di San Gennaro…

Ci accingiamo ad uscire. Corriamo verso Napoli. Si, mi dico, bisognerà fare qualcosa per arrestare il declino della civiltà umana cominciando dal Mediterraneo e dal Mezzogiorno che conservano l’antidoto contro il degrado del villaggio globale e della civiltà dello spreco e della negazione di ogni senso del divino, sin dai tempi dei Sanniti e degli Egizi, dei Greci e dei Romani, dei Longobardi e dei Normanni Svevi…Beh, dico a Francesco Saverio, andiamo ad evocare l’Unità del Mediterraneo e l’identità meridiana del Mezzogiorno. E intanto mi confermo nella idea che dovrò tornare a Benevento a cercare le tracce di Mefite e di Era e di Afrodite, di Iside e della Vergine Immacolata nonché Madonna delle Grazie che tutte finì per assommare in sé. Siamo intanto giunti al limitare del vecchio confine tra lo Stato Borbonico e lo Stato della Chiesa. Una grande parete-stele é quel che rimane della dogana di un tempo. Abbiamo anche superato la valle caudina. Qui i Sanniti infersero una terribile umiliazione oltre che una dura sconfitta ai Romani che se la legarono al dito e tornarono facendo più di una strage ma alla fine capirono anch’essi che nel sincretismo fatto di contaminazione e condivisione, era tracciata la strada maestra della loro grandezza mentre la cooperazione e l’integrazione lo erano per il comune sviluppo.

Antonio Corvino