Un nuovo grano al rosario della memoria e della ricerca delle radici. Politica meridionalista pubblica una ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Nella rivista sono già ospitato altri report letterari di Corvino per offrire ai propri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. Questa volta, personaggio del racconto è il territorio di Brindisi, un città di oltre 80.000 abitanti in Puglia. Città con una lunga storia, termine della vecchia e nuova via Appia, punto di punto di arrivo e partenza per la Grecia e il Medio oriente. (N.d.R.)
Brundisium. Dove i Crociati brindavano al ritorno
I cavalieri crociati che arrivavano a Brundisium per guadagnare la Terra Santa, cingere d’assedio Gerusalemme, sconfiggere il Saraceno infedele e magari provare a saccheggiare anche Bisanzio, visto che si trovavano nei paraggi e che il Papa di Roma, in fondo, avrebbe gradito, prima di partire colmavano i calici di rosso vino, li alzavano rivolgendo lo sguardo alla città e li vuotavano urlando, o sussurrando “a Brundisium” scambiandosi l’augurio di poter tornare, vivi, sani e salvi, nel porto da cui salpavano e nella città che, per ultima, li aveva accolti in terra cristiana. Avvolti nelle pesanti bianche tuniche segnate da una grande croce di color rosso, armati di tutto punto con spadoni lunghi e pesanti che a manovrarli dovevano usare entrambe le mani e scudi pure quelli ingombranti, cavalli protetti da scaglie d’acciaio e scudieri che recavano la lunga lancia, partivano benedetti da dio, a sentire i sermoni dei suoi vicari in terra che incitavano alla battaglia e assicuravano generose indulgenze e, comunque, per chi non fosse tornato, paradisi più o meno scontati e attesi.
Principi e duchi, re e soldati attraversavano l’Europa, partivano da ogni luogo, si davano convegno nei santuari dell’Arcangelo Michele, si concentravano a Canterbury o si incamminavano alla spicciolata, chi a piedi chi a cavallo e battevano sentieri, aprivano strade, saccheggiavano quanto bastava per sopravvivere e percorrevano quella che presero a denominare la Via Francigena puntando a Brundisium. Giunti a Lucera e attraversata la infuocata pianura del Tavoliere delle Puglie, salivano in religioso pellegrinaggio sullo sperone del Gargano.
Lì, nelle viscere della montagna, vi era il santuario dell’Arcangelo Michele, da lui stesso consacrato, che li attendeva per la confessione di ogni peccato e l’espiazione di ogni colpa e, quindi, puri nell’anima, scendevano nuovamente al piano per raggiungere, finalmente, Brundisium, a Sud, lungo il litorale adriatico. Monte Sant’Angelo brulicava di armati e pellegrini. Il castello per prudenza manteneva alzato il ponte levatoio e le mura erano presidiate. Le vie e le locande del borgo risuonavano di passi pesanti. I crociati si concedevano un po’ di riposo e non disdegnavano crapule e piaceri della carne prima di scendere nella Santa Grotta, purificarsi e, muniti della grazia di dio e dell’indulgenza plenaria impartita da vescovi e papi, riprendere la strada verso il porto d’imbarco.
Non solo armigeri e cavalieri, re e avventurieri passavano di lì. Anche Francesco, Francesco d’Assisi vi era passato. Era sceso nella basilica dell’Arcangelo ad implorare pace questa volta. Era tornato nel suo eremo ed era partito da Ancona per la Terra Santa ad implorare il Sultano ed a scongiurare i Crociati a deporre le armi, in nome di Dio. Cristiani e Saraceni potevano convivere da quelle parti, egli sosteneva, ed il Sultano era d’accordo a differenza dei cavalieri crociati. Qualche anno dopo fu la volta di Federico. Raggiunse Brundisium e si imbarcò con un piccolo esercito e qualche decina di navi al seguito, per salvare la faccia e non irritare più di tanto il Papa che lo aveva colpito con l’ennesima scomunica.
Aveva un piano e soprattutto conosceva il suo interlocutore. Malik Al Kamil, il Sultano di tutti i Saraceni, era uomo colto ed era saggio. La sua corte, come quella di Federico brulicava di sapienti, filosofi, artisti e poeti. Egli aveva già accolto in pace Francesco e con lui aveva pregato l’unico dio. Ora davanti all’Imperatore dei cristiani che parlava il linguaggio del buon senso sostenuto dalla fede nella comune civiltà e cultura mediterranea, non ebbe remore e la pace scoppiò senza colpo ferire. Federico, con il consenso di Al Kamil si incoronò re di Gerusalemme nella basilica del Sacro Sepolcro tornato ad essere luogo di preghiera per tutti e ripartì. Per una volta nessun cavaliere era rimasto sul campo di battaglia e tutti, giunti in porto a Brundisium, poterono colmare i loro calici e vuotarli felici di essere tornati.
Il Mare, il Porto, la Via Appia
Brundisium era il porto dell’imperatore Federico.E prima lo era stato di Roma. Il più importante porto dell’impero romano.La porta di accesso all’Oriente per chi partiva e il porto sicuro per chi tornava.Il destino di Brindisi è stato da sempre legato al mare. Esso penetra profondamente nella terra ferma creando due anse e avvolgendo il promontorio su cui la città, da tempi immemori, aveva preso a distendersi. Brunda la chiamarono i primi abitanti messapici che significa cervo, testa di cervo. Perché se voi la osservate dall’alto vedrete prender forma proprio la testa di un cervo con i due seni disposti uno da una parte e uno dall’altra del promontorio a disegnare le corna dell’animale. Il mare che entra come lama o come spada, ma dolce e carezzevole, ha da sempre segnato questo territorio in uno con la gente che lo ha abitato, pescatori e marinai, tutti radicati sulle sue sponde. E non poteva essere diversamente.
La salsedine impregnava l’aria mentre la brezza portava il fresco respiro del mare e l’afrore delle alghe sin dentro le case che i Messapi prima e, quindi, Greci, Romani e tutti coloro che vi giunsero successivamente nel corso dei secoli, presero a costruire. Se vi lasciate andare lungo le stradine del borgo antico o sui bordi del mare al di qua e al di là del porto, sentirete l’aria marina avvolgervi e se vi avvicinerete alle trattorie essa vi investirà, delicata ed intensa, con il profumo dei frutti di mare ed il pescato che invaderanno le vostre papille gustative oltre che il vostro olfatto, mentre il vento amico vi porterà l’aroma intenso dei fondali popolati dalla posidonia e la delicata freschezza delle alghe che popolano, in prossimità delle spiagge e delle falesie, le secche e gli scogli affioranti.
Se poi, vi siederete a gustare la cucina di qui, vi renderete conto che in pochi altri posti potrete godere di tanta bontà, genuinità e fantasia. Qui non c’è bisogno di spezie o di sofisticate ricette. Il mare è esso stesso bastevole a rendere ineguagliabile il vostro desinare. Brundisium faceva pendant con Tarentum, distante solo poche decine di miglia da qui e adagiata nel grande golfo sulle sponde dello Ionio. Rudiae era situata nell’entroterra al centro della Messapia, a due passi mentre Barion rimaneva più a nord sempre sulla costa adriatica. Più su la Daunia con il Tavoliere, il Gargano e la grotta basilica dell’Arcangelo Michele. Tarentum che era stata fondata dai Dori e da essi resa regina della Magna Graecia sin dall’VIII secolo prima di Cristo, dovette cedere, dopo la conquista romana, il primato dei traffici a Brundisium, mentre Barion avrebbe dovuto attendere l’epopea nicolaiana per affermare il suo primato sui mari d’Oriente in competizione con Venezia e Rudiae l’avvento di Maria d’Enghien, sposa di Raimondello Orsini del Balzo e quindi consorte di Ladislao d’Angiò-Durazzo, il visionario re di Napoli che per primo aveva immaginato il Regno d’Italia, per ritornare ai fasti antichi di capitale della Messapia. Roma, non ebbe dubbi. Al massimo del suo fulgore, fece confluire le sue strade a Brundisium consacrandola regina italica sugli itinerari per l’Oriente. La Via Appia finiva qui dove cominciava il mare e proseguiva sulle rotte delle navi che dal suo porto presero a raggiungere la Grecia e l’Egitto, Bisanzio ed Alessandria, i Balcani e la Turchia, Gerusalemme e Bagdad.
Le Colonne della Via Appia
Sono arrivato anch’io, l’altro pomeriggio, venerdì tre maggio 2024, a Brindisi. Pioveva. Una pioggia fitta ed insistente. Il cielo era plumbeo e nessuno spiraglio di luce si intravedeva. Son giunto, percorrendo un viale lastricato di bianche pietre e costellato da alte palme, sulla banchina del porto che segna il limitare della città che su di esso si affaccia. Una nave passeggeri era alla fonda e qualche veliero beccheggiava tranquillo.Il seno di ponente, quello che si incunea sino a raggiungere il ventre più intimo della città, era lì davanti a me immobile, indifferente alla pioggia e quasi lieto di essa che finalmente interrompeva una siccità durata per un intero anno da queste parti. É bello questo specchio di acqua azzurra e placida che ammicca alle stradine della città che, tutte, vi convergono. A cominciare proprio dalla Regina Viarum, la maestosa via Appia il cui termine è annunciato da possenti colonne di bianco marmo che, issate su imponenti basamenti anch’essi marmorei, si innalzavano verso il cielo in cima alla grande scalinata declinante, in contrasto a quelle, verso il mare.
Per la verità di colonne ne é rimasta soltanto una. Accanto, il secondo basamento è rimasto vuoto, tristemente monco. La colonna che su di esso si protendeva superba fu offerta in dono, ai tempi della peste del 1656, o consegnata a malincuore, a Rudiae, tornata ai fasti antichi, dopo essere stata, a sua volta, un tempo municipio romano e, soprattutto, patria del poeta Quinto Ennio, novello Omero, a detta di Orazio, e padre della letteratura latina e dei miti fondativi di Roma cui lo stesso Virgilio attinse a piene mani. Nel 1656 la peste aveva colpito Napoli e molte delle province del Regno. Brundisium, la cui gloria e grandezza aveva seguito il destino di Roma, avendo Bisanzio insediato in Barion il Catapano per il governo delle terre del Sud, temeva che il contagio la raggiungesse.
I suoi abitanti, o più precisamente i reggenti della città, invocarono speranzosi la protezione del santo vescovo Oronzo patrono di Rudiae, divenuta, nel frattempo, epicentro meridionale del Regno di Napoli. E Sant’Oronzo fu generoso: l’intera terra d’Otranto fu risparmiata e la città di Brundisium si trovò nella necessità di doverlo ripagare con altrettanta generosità, offrendo una delle sue preziose colonne della via Appia che, da allora, prese a dominare la piazza centrale dell’odierna Lecce intitolata appunto a Sant’Oronzo. Vi è più di qualche dubbio sulla conclamata storia della generosità. Qualcuno sostiene che in realtà si trattò di un vero patto leonino tra i capi delle due città messapiche e che la cessione della magnifica colonna fosse stata una sorta di sopruso pagato con molta sofferenza dai Brindisini per il presunto intervento del Santo patrono di Rudiae a loro favore.
Qualcuno ne solleciterebbe addirittura la restituzione asserendo che la protezione dal contagio non venne da un intervento miracoloso di Sant’Oronzo ma dal naturale andamento delle cose, dall’aria pura che spirava costantemente dal mare e, soprattutto, dalla rarefazione dei traffici che limitava grandemente l’arrivo di forestieri e quindi il rischio del contagio. Ma si tratta di quisquilie che ormai nessuno prende sul serio. Immagino.
Resta l’incanto di quella scalinata sovrastata da due giganteschi e leggiadri basamenti di bianco marmo e da una possente colonna elevata al cielo che dominano il seno di ponente del grande porto brindisino che accarezza la città, mentre in fondo il Forte Medievale ed il Castello Alfonsino o, altrimenti detto, Aragonese chiudono, con l’isola di Sant’Andrea, la costa in un abbraccio tenero e protettivo, lasciando al seno di levante l’onere di attendere ai traffici commerciali ed industriali giunti nei tempi recenti e smaltire carichi carboniferi gravidi di mortifere esalazioni che il vento di Tramontana, di casa da queste parti, disperde lungo il resto della penisola messapica mischiandole, in una miscela esiziale, alle polveri che giungono dalla martoriata città di Taranto, ormai dimentica dei fasti dell’antica capitale dorica della Magna Graecia.
L’Oriente e la gloria di Roma imperiale
Sono salito in cima alla scalinata dopo aver percorso per intero la banchina del porto turistico che balugina sotto la pioggia con le bianche pietre del basolato che riflettono la città. Ho camminato incurante della pioggia. Avevo un antico desiderio di percorrere quel lungomare su cui si affaccia la città vecchia e che d’un tratto ti regala quella immensa sorpresa della scalinata con le Colonne, come qui continuano a definire il limite monumentale della via Appia. Ho fatto uno ad uno i gradoni che conducono in alto. L’ho fatto con voluttà ed incurante della pioggia che mi batteva sul capo e bagnava i miei vestiti ed una volta in cima mi sono posto dietro le Romane Colonne per ammirare il mare che qui é da sempre amico, protettore e guardiano della città.
Da lassù puoi immaginare le rotte per la Grecia. Il vate Ovidio, in preda ad uno sconforto senza speranza, fu costretto a seguire la rotta per Tomi, l’attuale Costanza, allora uno sperduto villaggio tra gli Sciti sul mar Nero. Vi era stato esiliato dal divo Augusto per i cattivi insegnamenti della sua sublime poesia, dicevano, o per aver assistito a peccati impronunziabili dello stesso imperatore con la figlia Giulia, o per aver intralciato i piani di Drusilla, ultima moglie di Augusto, per la successione del figlio Tiberio, chissà. E puoi immaginare l’immenso Virgilio di ritorno dalla Grecia, dettare morente l’epitaffio per il suo sepolcro “Mantua me genuit, Calabri (che sta per Messapi nella nomenclatura romana di allora) me rapuere, tenet nunc Parthenope” mentre prega i suoi amici di dare alle fiamme il poema immortale dell’Eneide non avendone potuto completare l’opera di finitura.
Da qui partivano e qui arrivavano anche le rotte per, e dall’Egitto. Obelischi superbi venivano sbarcati sulla banchina di Brundisium in attesa di essere trasportati a Roma o a Benevento o a Pompei.Sulla via Appia che raggiungeva, con il prolungamento voluto da Traiano, Taranto e la Magna Graecia e attraversava i territori dei popoli Osci, quegli obelischi viaggiavano recando con sé il culto di nuovi dei che si aggiungevano a quelli del vecchio Olimpo greco e romano. É il caso di Iside che giunse a Roma ed a Pompei e che a Benevento, dove aveva un tempio assai venerato, si fuse con il culto di Mephite prima di essere assorbita, con questa, dalla Madre del Dio Cristiano. E Brundisium sulla scia della potenza di Roma partecipò alla diffusione delle idee e del sapere che viaggiavano di pari passo con gli eserciti, divenendo essa stessa terminale di tanta gloria e subendone i rovesci.
Brindisi, oggi.
Certo il porto di Brindisi è rimasto straordinario.Tuttora un prodigio depositato dal Mediterraneo sulle sponde dell’Adriatico in terra messapica. Ma le rotte del mondo corrono lungo gli oceani, abbarbicate sulle sponde del Mar del Nord oltre che dell’Atlantico e del Pacifico e raggiungono metropoli e megalopoli distanti da qui. Ed i ragazzi partono. Vanno via in cerca di fortuna. Brindisi oggi è una città di oltre 80.000 abitanti rispetto ai 377.000 dell’intera provincia. Gli effetti dello spopolamento non sono eclatanti come nelle terre di mezzo nel cuore del Sud, ma sono comunque evidenti, e fan male.
La sua collocazione lungo le sponde del mare e la sua antica configurazione urbana e portuale l’hanno protetta da derive rapide e scivolose. Qui oggi si pratica ancora il basket importato dai militari americani della NATO che dopo la fine della seconda guerra mondiale si insediarono a protezione del fronte Sud dell’Europa, come affermavano le autorità politiche e militari. La posizione di confine tra Est ed Ovest occupata dall’Italia in piena guerra fredda e la straordinaria posizione strategica della città, han fatto di Brindisi un avamposto dell’Occidente irrinunciabile negli equilibri geo-politici del Mediterraneo. L’ONU stessa l’ha scelta come sua base per soccorrere l’Africa in perenne stato di indigenza a causa dell’avidità dell’Umanità intera che da quelle parti oltre che nel Vicino e Medio Oriente regolava e regola i suoi conti. Spudoratamente.
E Brindisi seguì il destino del Mezzogiorno che somigliava molto al destino dei territori delle altre sponde del Mediterraneo. Produzioni inquinanti, materie chimiche di base ed energia elettrica da carbone diffondevano polveri invisibili ed esalazioni dappertutto, avvelenando perfino i terreni già destinatari di produzioni agricole di grande pregio. In alternativa giunsero manufatti industriali a basso costo destinati a morire e ad alimentare povertà, disoccupazione ed emigrazione tipiche del villaggio globale. Ma tutto questo, mentre osservavo il mare azzurro a dispetto del cielo scuro, fermo al di qua della imponente gradinata e delle maestose colonne che segnavano la fine e l’inizio della Via Appia, non riuscivo proprio a considerarlo.
E mentre la pioggia lenta e costante bagnava il mio viso e rendeva luccicanti i marmi e il pavimento della banchina di fronte a me, lasciavo che la bellezza del Mediterraneo mi avvolgesse e che la grandezza della memoria depositata tra quelle scalinate ed in quello specchio d’acqua prendesse il sopravvento sulla mestizia. É terra di grande fascino e dalle potenzialità tuttora integre la terra messapica. I veleni sparsi in decenni di inquinamento non hanno impedito alle terre protette da zone umide, dal mare e dalle colline delle aree più interne di produrre vini eccezionali e olio extravergine dal gusto insuperabile. La civiltà contadina ha qui raggiunto vette tuttora insuperate che trovano nelle masserie, nei trulli, nei borghi e paesi appena più in qua, verso l’entroterra, delle testimonianze di grande valore.
Il borgo antico
Così confortato da questi pensieri mi lascio alle spalle il porto che tuttavia mi segue protettivo e mi avvio verso l’antico centro storico in cui le strade lastricate di bianchi basoli confluiscono nella grande piazza della cattedrale, essa pure splendente nel biancore della pietra che la illumina. Dalla cima della scalinata termine della via Appia mi sono incamminato tra le strette viuzze che si intersecano come in un mite labirinto che la banchina del porto da un lato e la cattedrale dall’altro rendono amico e facilmente percorribile. Ho indossato un soprabito che avevo portato con me non fidandomi di questa primavera ballerina, evitando così che la pioggia inzuppasse i miei abiti. I capelli erano dal canto loro ormai ben fradici ma non mi preoccupavano più di tanto.
Anzi. Li sentivo dolcemente avviluppare il mio collo e scendere sulle tempie e sulla fronte mentre il mio viso era attraversato da piccoli rivoli benedetti. In giro non c’era nessuno. Mi ero riparato anch’io in un bar in attesa che almeno rallentasse l’intensità della pioggia ed ho ascoltato il melodioso accento del dialetto intriso di latino e greco oltre che di foneni arabi, residui francesi ed esuberanze spagnole. Era tanta la voluttà che mi sentivo in simbiosi con il tempo e la natura ma anche con la gente generosa di qua e sempre ospitale con i forestieri. La mia mente era avida di riassaporare le emozioni dei cammini irrorati dalla pioggia e schiaffeggiati dal vento e tempestati da grandine e senza volerlo rallentavo il mio andare.
Davanti a me la strada si restringeva sino a concentrarsi sotto un arco di straordinaria bellezza. Ero sul retro del campanile addossato alla cattedrale che diveniva arco e portico che metteva in comunicazione quella parte della città tutta protesa verso il mare con la piazza della cattedrale che segnava a sua volta una fitta presenza di conventi e palazzi risalenti all’epoca medievale. Ho affrettato il passo e mi sono fermato in quell’intercapedine spazio-temporale che mi aveva atteso accogliendomi pietosa.
La piazza si apriva accogliendo gli angusti confini delle viuzze della città vecchia. La cattedrale mi apparve luminosa nonostante il buio del cielo. Essa si rifletteva con un gioco intrigante di luci ed ombre sull’impiantito della piazza bagnata. Chissà perché mi apparve bella e mi conquistò. L’avevo vista altre volte e l’avevo sempre frettolosamente liquidata come espressione di un barocco che, confesso, non riesco ad amare nemmeno quando esso diventa raffinato esercizio di scalpellini che ricamano la pietra. Complice la pioggia e le reminiscenze di qualche mio cammino, adesso invece la scoprivo lineare e pulita, essenziale in qualche modo. C’era del romanico nel suo impianto pur sopraffatto dal barocco che era stato aggiunto successivamente.
Consultai curioso internet. E finalmente trovai la chiave di lettura dell’arcano. La cattedrale con il Campanile addossato alla facciata era stata costruita nel mille duecento e quindi ricostruita con una impostazione barocca a seguito di un terremoto nel 1600. Il Campanile e l’arcata sottostante mantenevano assai più evidenti i tratti originari e fu proprio seguendo le loro linee che scoprii la nobiltà romanica nascosta nella cattedrale. Era meraviglioso quel campanile che segnava il di qua ed il di là dello spazio cittadino, proponendosi come confine e porta al contempo. Mi venne in mente il campanile della chiesa di Santa Patrizia a San Gregorio Armeno. Anche lì esso separava ed univa in armonia il dentro ed il fuori di chi lo attraversava segnando una sorta di metafora del proprio cammino.
Anche ad Isernia, antica capitale dei popoli Osci che al tempo delle guerre sannite contro i Romani si erano costituiti in lega italica, battendo proprie monete e promulgando proprie leggi, il centro storico si concentrava di qua e di là della cattedrale con l’arco di San Pietro che disegnava il campanile e fissava il discrimine tra il dentro e il fuori dell’antica città. Adesso trovavo la stessa impostazione architettonica qui a Brindisi, già Brundisium e ancor prima Brunda. Straordinario questo Mezzogiorno immerso nel Mediterraneo. Dappertutto fieramente diverso, eppure sempre uguale a sé stesso. Ovunque.
Il futuro? Nella memoria
Finalmente attraverso la piazza.Mi attendono all’Accademia degli Erranti. Un antico monastero dei Padri Scolopi dediti all’educazione dei giovani finché fede in dio, carità e conoscenza, sostenendosi a vicenda, ne avevano alimentato le vocazioni garantendone l’azione pedagogica prima del declino che aveva portato all’abbandono ed al degrado. Recuperato di recente, l’ex convento è tornato a risplendere di nuova luce: un gruppo di ragazzi ne ha fatto la sede dell’accademia degli erranti.
In esso si ricostruiscono e si curano gli antichi cammini accogliendo pellegrini e viandanti come un tempo facevano i monaci nei loro conventi e si pratica la cultura e la conoscenza per restituire il senso della bellezza ai ragazzi e l’orgoglio dell’identità alla comunità. Tutta roba ormai divelta dalle coscienze individuali e dall’anima collettiva educate nel caravanserraglio del villaggio globale a sopravvivere nell’appiattimento consumistico fine a sé stesso.
Antonio, il referente dell’accademia mi attende. É tutto pronto per raccontare le storie e le epopee delle genti e dei popoli del Sud, attraverso la memoria che camminatori, poeti e scrittori stanno disseppellendo percorrendo e segnando gli antichi sentieri delle terre di mezzo. C’è Gaetano, maestro di chitarra, che eseguirà dei brani a commento delle emozioni che la memoria inevitabilmente reca con sé. “Eseguirò dei brani che evocano i grandi spazi e le atmosfere sudamericane pregne di sensuale stupore” mi dice “come contrappasso ai silenzi delle terre di mezzo da te raccontati”. É sufficiente per sentirmi scendere addosso come pioggia leggera e amica la solitudine ricca di luce e piena di vento che mi ha avvolto nei cammini.
E penso che gli angeli dei cammini che stanno restituendo al futuro del sud i suoi antichi sentieri e tratturi stiano accendendo più di qualche speranza in questo mondo che ha bisogno di essere radicalmente rovesciato perché torni a stare in piedi. Antonio introduce i lavori. La bella sala è sufficientemente piena e sembra attraversata da forte empatia. Mi asciugo alla meglio i capelli e mi tolgo il soprabito e intanto Antonio racconta la storia di altri ragazzi che han girato un docufilm sui cammini che dal Gargano giungono a Santa Maria di Leuca. Mi sembra un buon segnale.
“Me ne sono andato in America, Los Angeles” racconta Tancredi, il regista, viso pulito e giovane. “Volevo fare qualcosa nella mia terra e sono tornato” aggiunge ed io penso che si, prima o poi l’esercito dei ragazzi arriverà a prendere il posto degli opliti di Re Leonida e dei nostrani don Chisciotte prima che su di essi cali la notte.