Negli anni più recenti improvvisi e travolgenti eventi di portata mondiale -la pandemia, l’aggressione russa all’Ucraina, il pogrom di Hamas in Israele e la guerra di Gaza- hanno cambiato assetti geopolitici ed economici che sembravano cristallizzati nel cuore ricco dei paesi occidentali e hanno rivelato quel “mondo capovolto” divenuto logo di Feuromed (festival euromediterraneo) tenuto a Napoli nel 2023 e 2024 e della Carta di Napoli (primi firmatari Roberto Napoletano e Patrizio Bianchi).
Nel nuovo mondo la testa d’Europa è a Sud, in quel Mediterraneo “quasi Oceano” (felice definizione di Adriano Giannola) che occupa il 2% della superfice marittima del pianeta, ma attraverso cui passa ancora il 23% del traffico commerciale mondiale; presidiato ormai dalla Cina che vi possiede grandi porti di transhipment oltre ad essere prima grande investitrice (seguita da Turchia e Russia) nel grande e differenziato continente africano della “Speranza” (Federico Rampini), pieno di risorse energetiche effettive e potenziali, tradizionali e alternative, e pieno di futuro con la sua la popolazione giovane e istruita.
Nello scenario ricordato, il dibattito e l’azione politica in Italia ha negli anni più recenti rivolto notevole impegno alla costruzione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (con investimenti per circa 200 miliardi, nell’ambito del grande Recovery Fund-Next Generation EU di oltre 1000 miliardi); piano formulato con dichiarato intento meridionalista e visione euro-mediterranea (che tale intento e visione siano pienamente rappresentati dai progetti inclusi è altro discorso, come rivelano le diverse versioni elaborate per accumulo politico-territoriale più che per selezione, nonché la recente opportuna decisione governativa di circoscrivere i progetti, secondo prescrizione UE, a quelli effettivamente realizzabili entro il 2026).
Molti punti di debolezza delle politiche dell’Unione e dei suoi singoli Stati, particolarmente dell’Italia, si erano già evidenziati con la crisi finanziaria del 2008; anche se si sono evoluti in vistose e gravissime criticità nel contesto della pandemia Covid19 e della guerra ucraina, imponendo urgentemente la sostituzione delle possibilità di rifornimento energetico come la ridefinizione delle politiche industriali e della logistica.
Le maggiori fragilità di una Unione pre-politica, nata inusualmente intorno a una moneta unica senza lo stesso bilancio e senza Stato, si erano già concretizzate proprio nel mancato presidio energetico e geopolitico del Mediterraneo attraverso le regioni del Sud d’Italia; nonostante tale multiforme presidio fosse stato annunciato con la realizzazione della Zona di libero scambio tra i paesi delle due sponde del Mediterraneo con la destinazione di cospicui finanziamenti alla coesione territoriale, con le grandi reti TEN-T intermodali ad elevato contenuto tecnologico per rivoluzionare le connessioni materiali e immateriali in tutto il territorio continentale, includendovi la Sicilia con l’Alta velocità ferroviaria e l’attraversamento stabile dello Stretto di Messina.
Proprio qualche giorno addietro Mario Draghi (già negli ultimi anni protagonista dall’ambito della Banca Centrale Europea delle più importanti e innovative azioni finanziarie nella direzione dell’unificazione economica e politica continentale, il Quantitative Easing e Il Recovery Fund), nel contesto della Conferenza europea di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali, ha indicato la necessità un radicale cambiamento nelle politiche europee, cambiamento fondato su una inedita strategia industriale comune e su un unico mercato dei capitali (ovvero sull’attivazione di un unico innovativo e selettivo circuito risparmi-investimenti che oserei definire di lontana memoria nittiano-beneduciana).
Secondo Draghi urge rispondere alla competizione scatenata da Stati Uniti e Cina -nel nuovissimo scenario di un gioco globale ineguale e sregolato- con una strategia e uno strumento ad hoc per il coordinamento delle politiche economiche; considerando anche l’ipotesi di attuarle con un sottogruppo di stati (insomma scavalcando posizioni sovraniste o nazionaliste). “Il nostro processo decisionale e i nostri metodi di finanziamento sono stati concepiti nel mondo di ieri pre-Covid, pre-Ucraina, pre-scoppio della crisi in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra le grandi potenze”, ha precisato. Le proposte di Draghi per salvare L’Unione consistono nel realizzare economie di scala a livello continentale a partire dalle comunicazioni; fornire e finanziare beni pubblici europei garantendo rifornimenti di risorse indispensabili (materie prime ma anche mano d’opera); creare un unico mercato dei capitali con destinazione del risparmio ad investimenti coerenti con strategie e strumenti adatti; rinnovare il partenariato tra gli stati membri secondo un progetto “non meno ambizioso di quello dei padri fondatori con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio”.
Il trattato che istituì la CECA è del 1951 e i paesi fondatori erano allora Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. I padri fondatori italiani evocati da Draghi, sia della comunità europea delle materie prime che della comunità europea dell’energia atomica (Euratom-Atomo per la Pace) e del Mercato comune (1957), ovvero le classi dirigenti italiane della Ricostruzione e del “miracolo economico”, ebbero fortemente presente il coinvolgimento del Sud italiano nelle strategie energetiche, infrastrutturali e industriali nazionali, europee, atlantiste. La Comunità europea che definì l’interesse comunitario e nazionale delle infrastrutture della comunicazione nel nuovo ciclo tecnologico della strada e delle telecomunicazioni, vi accolse il collegamento stabile fra la Sicilia e il Continente, dagli anni Cinquanta entusiasticamente studiato in ambito scientifico nazionale e internazionale, voluto convintamente dai siciliani e dai calabresi e particolarmente dai messinesi e dai reggini di ogni parte politica, come testimonianza e condizione di progresso e modernità di interesse e godimento collettivo. E’ del 1971 anche la legge che istituì la Società Stretto di Messina, a maggioranza Iri, per lo studio del progetto di collegamento e la sua realizzazione.
Difficile trovare nell’intera storia dell’Italia repubblicana, pur tra le aspre contrapposizioni politiche e ideologiche di un mondo ancora bipolare, le straordinarie sinergie tra istituzioni nazionali, internazionali e locali, tra Nord e Sud del Paese, tra politiche ordinarie e politiche straordinarie, tra imprese pubbliche e imprese private, tra stabilità monetaria e ampio uso della spesa pubblica per investimenti, tra logiche liberiste e azioni programmatorie, quali quelle realizzate dall’immediato secondo dopoguerra a tutti gli anni Sessanta. Si trattò scelte ruotanti intorno a un “interesse straordinario per il Sud Italiano”, in grande credito presso le istituzioni finanziarie di Bretton Woods grazie all’azione dell’ex direttore dell’Iri, quindi dal 1946 Direttore e poi Governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella; in grande credito negli ambienti statunitensi dell’European Recovery Program (Piano Marshall) e nelle istituzioni europee ricordate, nate originariamente proprio per programmare investimenti coperti da prestiti o aiuti gratuiti in dollari.
Cosa rese al tempo il Sud tanto attrattivo nelle politiche nazionali e internazionali, negli interessi di imprese pubbliche e private, nell’azione di governo? Cosa rese tanto condiviso il meridionalismo nei governi post bellici da De Gasperi fino alla nascita del primo centrosinistra? Non avvenne solo per la presenza in USA di una grande comunità di emigrati giunti ai vertici dell’amministrazione e dell’esercito statunitense e di prestigiosi esuli politici per antifascismo (fra cui Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini) o per ragioni razziali. Il merito degli interlocutori italiani delle autorità statunitensi e internazionali fu l’aver saputo rappresentare il Sud -proprio nel momento della massima distruzione del sistema industriale e infrastrutturale per effetto della guerra e della sconfitta militare e al minimo del suo pil pro-capite al il 50% circa di quello del Centro-Nord- come un territorio bisognoso di aiuto ma non sottosviluppato, dotato di know how e di esperienze e vitalità imprenditoriali, sebbene ancora dominato da ampie zone latifondistiche improduttive e socialmente povere.
Fondata alla fine del 1946 l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno (SVIMEZ) da Rodolfo Morandi insieme ai meridionalisti dell’Iri (tra cui Donato Menichella, Pasquale Saraceno, Francesco Giordani,) aveva come soci tutte le industrie e le banche italiane nella prospettiva della attuazione di un Piano per il Sud finanziato dalla Banca Mondiale per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Nel 1950 su disegno di Donato Menichella allora Governatore della Banca d’Italia, nacque la Cassa per il Mezzogiorno, con un piano decennale di investimenti infrastrutturali riguardanti soprattutto il settore dell’energia. I finanziamenti furono erogati in tranches tra il 1951 e il 1962, in corrispondenza con l’esaurimento dell’azione del Piano Marshall e in modo da evitare che l’eccesso di spesa potesse mettere in discussione la stabilità della lira e la sua convertibilità.
Gli economisti della Banca Mondiale poterono considerare il finanziamento del Piano della Cassa come una sicura pietra miliare nella loro azione per lo sviluppo di aree depresse del mondo. All’inizio degli anni Sessanta erano stati realizzati nel Sud Tutti gli impianti idroelettrici programmati e costruita dall’IRI in tempo record di quattro anni la centrale nucleare sul Garigliano, parallelamente a quelle della Edison a Trino Vercellese e dell’Eni di Enrico Mattei a Latina. L’Eni, nato nel 1953, protagonista di un grande piano energetico italiano dalla Padana al Mediterraneo, a lungo appesantito e oscurato come gli altri grandi enti pubblici industriali da ingerenze di partiti e correnti contrastanti con finalità imprenditoriali e solo dal 1992 alleggerita dagli oneri impropri dal controllo del Ministero delle partecipazioni statali, è oggi tra le nostre imprese pubbliche più prestigiose nel mondo.
In un mondo radicalmente cambiato, si torna oggi a scommettere su un rinnovato “interesse straordinario per il Sud”, quale condizione per fare del Mediterraneo il nuovo hub energetico d’Europa, la sua fucina di risorse materiali, tecnologiche e umane per lo sviluppo e per la pace Il Governo ha varato un Piano Mattei (con risorse certo assai limitate e a tal proposito necessiterebbe la radicale svolta proposta da Draghi); nuovamente imprese pubbliche e private sono attratte da investimenti nel Sud e in linea di massima la politica risponde ad una mobilitazione sempre più ampia di istituzioni culturali e scientifiche a lungo rimaste distanti, dalle Università al CNR: quest’ultimo attraverso il suo Istituto per lo studio delle economie mediterranee produce da molti anni rapporti annuali sull’area e ha costruito importanti accordi su ricerche secondo una deliberata strategia di diplomazia scientifica, accordi ancor più importanti in uno scenario di guerre sanguinose e di esasperazione degli integralismi ( altro che immaginare di rompere i bandi comuni in base a pregiudizi politici come sta avvenendo in alcuni atenei italiani, europei e persino statunitensi! ). Sono tornate più che mai strategiche le comunicazioni più innovative nelle regioni più a Sud, ponendo fine a una vergognosa e inaccettabile disuguaglianza di diritti di cittadinanza, oltre che di opportunità a partire dai territori interessati (il costo dell’insularità per la Sicilia ammonta 7miliardi di Pil).
L’Unione Europea ha bisogno davvero di un disegno coraggioso e coerente e di una classe dirigente che abbia le qualità e la tempra dei padri fondatori evocati più volte nella loro funzione istituzionale da Draghi, da Mattarella, da Romano Prodi, di cui seppur in un mondo completamente cambiato, sono tra gli ultimi testimoni e messaggeri.