Enrica Garzilli, docente universitaria e scrittrice, specialista di indologia e studi asiatici, di antiche origini napoletane. Laureata in sanscrito all’Università di Roma “La Sapienza” con Raniero Gnoli, allievo di Giuseppe Tucci, il più grande esploratore italiano dell’Asia e studioso di fama internazionale, ha studiato con altri suoi allievi Mario Bussagli, Paolo Daffinà e Luciano Petech.  Ha continuato a studiare conseguendo due master post-laurea di secondo livello, uno in Storia e uno in Computer Science. Nel 1988 ha vinto la Borsa del Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Programma di Scambi Culturali Internazionali fra India e Italia e per due anni è stata Research Affiliate all’Università di Delhi. Ha studiato Human Rights in qualità di Visiting Researcher (Graduate Program) alla Harvard Law School. Successivamente ha insegnato alla Harvard University come Senior Fellow al Center for the Study of World Religions, Lecturer al Dipartimento di Sanscrito e Studi Indiani e Direttore Editoriale della Harvard Oriental Series, Opera Minora, che ha inaugurato con il suo libro “Translating, Translations, Translators: From India to the West”. Ha pubblicato dieci libri scientifici e un thriller, 210 articoli scientifici in riviste internazionali, recensioni critiche, editoriali, policy briefs, circa 130 articoli giornalistici su riviste e quotidiani come “Limes”, “ISPI” (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), “Nòva” del quotidiano “Sole 24 Ore”, “Panorama”, “Il Messaggero”, “ioProgrammo”, “Il Fatto Quotidiano”, “L’illustrazione Italiana” e altre. Il suo ultimo libro, in due volumi, intitolato “L’esploratore del Duce: le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti. Con il carteggio di Giulio Andreotti”, è stato finalista del Premio Acqui Storia 2018 e ha vinto il Premio Giuria dei Lettori. Nel 1994 ha fondato l’Asiatica Association, organizzazione no-profit per diffondere la conoscenza e lo studio delle culture asiatiche e ha poi fondato le prime riviste accademiche online del mondo, “International Journal of Tantric Studies” e “Journal of South Asia Women Studies”, delle quali è tuttora Editor-in-Chief. Tornata in Italia è stata docente di Sanscrito, Letteratura Indiana, Studi Nepalesi, Storia e Diritto dell’Asia Meridionale all’Università di Perugia e poi presso l’Università di Macerata, dove ha svolto attività di ricerca e insegnato Buddhismo, Induismo, Confucianesimo, Taoismo e istituzioni dell’Asia meridionale.  Ha insegnato Storia del Pakistan e dell’Afghanistan all’Università di Torino. Attualmente collabora come Research Assistant alla Harvard University e come esperta di problemi dell’Asia per istituzioni pubbliche e private. 

Enrica-Garzill

Lei è una specialista di indologia e studi asiatici, com’è nato il suo amore per l’Asia e l’Oriente?

È nato per caso, ero all’Università di Roma, avevo cominciato l’Università un po’ prima, all’età di 16 anni. Mi ero iscritta a Lingue e studiavo portoghese. Passando in Facoltà, il mio occhio cadde su una bacheca contenente La Bhagavad Gītā, la “Bibbia” dell’induismo, il poema religioso che Gandhi portava sempre con sé. Ne rimasi fortemente affascinata. Sono entrata in quel dipartimento quel giorno e non sono più uscita. Ho cominciato a studiare sanscrito, poi sono andata in India con il Ministero degli Affari Esteri per quasi due anni. Successivamente, mi hanno invitata all’Università di Harvard a tenere delle lezioni e in America ho conseguito un altro titolo in Giurisprudenza, perché, nel frattempo, mi ero specializzata in traduzioni di testi giuridici di carattere filosofico-religioso in sanscrito. Ho studiato sia legge tradizionale sanscrita, che è tuttora la base della legge e della costituzione indiana, poi giurisprudenza, diritti umani asiatici; quindi, mi sono spostata sempre più verso l’Asia moderna più che verso l’Oriente antico.

Ha affermato che l’Asia e l’Oriente non sono la stessa cosa, riferendosi proprio al concetto di antico e moderno. In che senso?

Nel senso che bisogna distinguere tra gli studi di antichistica e quelli dell’Asia moderna. Il sanscrito, ad esempio, è una lingua tenuta su “artificialmente”, ormai non è più parlata, se non in due villaggi di pandit, è un po’ come il latino, quindi, chi studia quello e tutto il mondo dell’Asia meridionale studia l’Oriente; chi studia la parte moderna, come me adesso, studia l’Asia. Quindi Oriente Antico, Asia moderna. Un tempo gli studiosi si distinguevano in “asiatisti” e “orientalisti”, io preferisco definirli “studiosi dell’Oriente”, perché, dopo che il grande studioso Edward Said ha unito tutti gli studi colonialisti all’idea dell’Oriente, ormai dire “orientalista” non è solo politicamente scorretto, ma indica una certa mentalità, un po’ alla Kipling, ossia quella del colonialista che studia l’Oriente come si studia un animale in gabbia, magari con affetto, con ammirazione, anche con gli occhi un po’ incantati, ma comunque è un conquistatore o colonizzatore, ha sempre da insegnare. È sempre paternalista. Pensa che il suo paese sia comunque migliore, più evoluto. Già Tucci negli anni Cinquanta diceva che per studiare l’Asia bisogna spogliarci della mentalità eurocentrica. Le faccio un esempio: Subhas Chandra Bose, il noto nazionalista indiano, uno dei padri della nazione, omaggiato in India con statue e film, in Italia è stato sempre considerato “fascista”. In effetti ha collaborato con il fascismo per sconfiggere il British Raj ma le sue idee erano molto vicine al comunismo. Infatti cercò anche di fuggire in Unione Sovietica. Non trovando asilo continuò la sua lotta in Europa, presso la Germania prima, l’Italia poi e infine in Giappone. A Tokyo c’è   addirittura un tempio dove sono conservate quelle che si dice siano le sue ceneri. Da noi invece studiarlo, in quanto considerato fascista, è sempre stato un tabù. Lo hanno giudicato con gli occhi eurocentrici, anzi, italiani.

A suo avviso, attualmente, qual è la percezione dell’Oriente da parte dell’Occidente e nello specifico del mondo asiatico?

Bisogna capire quale Oriente, perché l’Asia include un’area estremamente vasta che va dalle Filippine al Vicino Oriente, Balcani, Turchia, Medio Oriente, Palestina, etc. Tutto questo è considerato Asia, è un territorio enorme. In genere si pensa all’Asia moderna associandola a grandi problemi e grandi conflitti, il che è anche vero, perché l’unica area orientale realmente esente da guerre è l’India, se si eccettuano le scaramucce ai confini della Cina. Il Medio Oriente, l’Iran, l’Iraq, la Siria, la Turchia, la Palestina, l’Armenia, quindi anche il Centro Asia, sono tutti luoghi dove avvengono costantemente conflitti. In Afghanistan al momento vi è di nuovo una guerra in atto tra civili, sono scoppiate di nuovo le bombe. Il Tibet è invaso dalla Cina dal ‘51 e lì i tibetani vengono tuttora arrestati. La cultura, la lingua e la religione tibetana sono negate. Alcuni monaci e anche dei laici si sono immolati con il fuoco per protesta. Il Dalai Lama non può rientrare in patria. Il Panchen Lama è scomparso da quando era solo un bambino, lui e la sua famiglia, sono trascorsi più di vent’anni e ancora non si sa dove sia. Sono tutte zone di grandi conflitti, eccetto il Nepal e l’India. Anche il Giappone è in pace; la Cina invece ha grandi conflitti con gli uiguri e i tibetani. Tutto l’Oriente è attraversato da grandi crisi e da grandi problemi. Tutto l’Oriente, anzi direi tutto il mondo dai Balcani a est, ribolle.

In termini di valori, quali ritiene siano le principali differenze tra Oriente e Occidente?

Se parliamo del nostro Oriente, io penso il valore più importante sia la tradizione. C’è molto rispetto per il passato, al quale sono tutti molto legati, e quindi molto rispetto anche a livello familiare. Vi è grande rispetto per la figura dei nonni, ad esempio. Anche in Turchia, che è il più occidentalizzato tra tutti i paesi orientali, se si eccettuano I paesi del Medio Oriente come Israele, i nonni stanno in casa del figlio maschio maggiore. Altrettanto in India, ovunque nel mondo orientale. Infatti, il grande problema è quando le vedove non hanno figli e restano abbandonate a se stesse e sono costrette ad andare in rifugi o presso delle suore. La tradizione è un valore fondamentale, che purtroppo però molti gruppi vogliono far valere anche per negare i diritti umani. In Turchia, ad esempio, è noto l’atteggiamento verso le donne. Non così in India che, malgrado il governo del BJP, la destra induista, è comunque un Paese democratico e almeno a livello legale non discrimina così le donne. In Nepal c’è un governo nato dai maoisti appoggiato dalla Cina ma anche lì non escono fuori dalle logiche tradizionali. La tradizione spesso diventa molto castrante per le donne in genere. Di valori ce ne sono tanti in Oriente, anche quello dell’ospitalità, ad esempio. L’occidentale da una parte è visto come “a cow to milk”, un retaggio coloniale, cioè “una mucca da mungere”, dall’altra con rispetto per tanti motivi e, nel contempo, con invidia, perché pensano che noi siamo tutti ricchi e fortunati, come in Africa peraltro, hanno tutti quest’idea. Certamente il livello di vita medio di un occidentale è più alto di quello indiano o nepalese o quello di molti paesi africani. Eppure, essere ospiti in una casa indiana o nepalese è un’esperienza unica. Allo stesso tempo in Oriente si tengono ben strette le loro tradizioni, il loro modo di vivere e hanno una coesione sociale enorme. Lì sono i gruppi che si fanno la guerra, come in Afghanistan i signori della guerra, ma all’interno queste comunità sono molto coese. In Occidente invece siamo individualisti in tutto e per tutto. Nessuno in fondo si riconosce in una comunità, neanche quella dove lavora e non più neanche la famiglia.

Nel 1994 ha fondato l’Asiatica Association che nel 2021 è diventata una ONLUS, in cosa consiste l’attività di questa istituzione?

È un’associazione senza fini di lucro, fondata nel 1994, con due journals, due riviste accademiche che, insieme a Wired, sono state le prime riviste online in assoluto al mondo, di cui però ho dovuto frenare la crescita perché o ci si dedica a fare l’editore o si fa anche altro. Queste riviste si occupano di diffondere la conoscenza e la cultura sia orientale, sia asiatica, hanno un comitato scientifico internazionale, dei giornalisti retribuiti che partecipano alla redazione e sono state pluripremiate. Il Journal of South Asia Women Studies è dedicato ai Gender Studies; l’altra rivista, l’International Journal of Tantric Studies, al tantrismo inteso come parte di movimenti filosofici/religiosi più che altro buddhisti, come nel buddhismo tibetano o Vajrayana. C’è un grande revival del buddhismo in occidente. Il buddhismo è molto seguito anche in Italia, tant’è che è una religione riconosciuta dallo Stato come il Cristianesimo e l’Islam e altre.

Collabora con molteplici riviste internazionali e ha pubblicato molti libri, quando ha iniziato a dedicarsi alla scrittura in maniera intensa?

Con la stesura del libro in due volumi di 1496 pagine su Tucci, il maestro dei miei maestri. In realtà, quando ho iniziato a  fare ricerca e scriverlo, avevo quattro lavori, facevo la giornalista, insegnavo in due università, in Italia in inverno e negli USA in estate, scrivevo e dirigevo le riviste e veramente facevo una vita troppo frenetica. Adesso ho un contratto con una casa editrice molto importante, una delle maggiori di livello europeo e ho finito, grazie al Cielo, il mio ultimo libro che si intitola “Mussolini e Oriente” in cui tratto l’Asia − India, Afghanistan e Giappone − durante il periodo fascista.  È un volume di circa 1100 pagine che finalmente sta vedendo la luce. Per finire questi volumi ho dovuto per forza dedicarmici in maniera intensa.  Dalla ricerca di documenti in tutto il mondo alla pubblicazione ho impiegato per i volumi su Tucci quasi 14 anni, da quando il senatore Andreotti mi ha inviato il suo carteggio originale, per questo solo 5, ma non è ancora uscito.

Enrica-Garzilli

“L’Esploratore del Duce” delinea in maniera molto dettagliata la figura dello studioso Tucci, com’è nata l’ispirazione per quest’opera?

Tucci è stato il maestro dei miei maestri. Volevo scrivere una biografia su di lui perché non c’era niente, perché ha informato di sé il mondo degli studi orientali per il suo metodo scientifico rigoroso anche se, purtroppo, in Italia ha anche lasciato in eredità alle nostre discipline i vizi accademici. Per esempio, quello di scegliere ricercatori e docenti non solo per merito, ma per altre qualità. Volevo capire anche perché Tucci è stato un uomo di punta della politica culturale fascista e repubblicana in Asia. Tucci ha messo in posti di potere tutti i suoi allievi, alcuni dei quali sono entrati nella P2 e gli altri sono quasi tutti massoni del Grande Oriente d’Italia. La mia è stata un’esigenza di capire, perché io sono andata via dall’Italia anche per salvarmi da questo ambiente che ha dei metodi che nulla hanno a che vedere con la professionalità e l’etica. Fare ricerca non ha una morale ma ha un’etica. E insegnare è un mestiere importante e delicato. Si forma il presente e il futuro di una nazione.

È iniziata dunque così la sua esperienza in America?

Sì, avevo inviato le mie prime pubblicazioni ad Harvard, mi hanno risposto invitandomi a tenere delle lezioni, poi mi hanno voluta lì da loro, però trasferirmi mi è costato molto a livello personale. L’esperienza americana è stata meravigliosa e mi piacerebbe tornare solo che, purtroppo, da Obama in poi non accettano più stranieri, a meno che non si tratti di manodopera, poiché ve n’è molto bisogno. Il mondo intellettuale è tagliato fuori, a meno che non si vada a studiare lì per poi restarvi a lavorare, e infatti abbiamo molti studiosi nei posti chiave della ricerca scientifica, ma io non mi sento di rimettermi a studiare per dare degli esami, anche se non ho mai smesso di studiare.

Come definirebbe il Suo stile letterario?

Io non so fare letteratura, mi baso sul metodo filologico in tutto: dati, documenti e, se possibile, l’imparzialità. Come dicevano due grandi storici, Salvemini e De Felice: “cerchiamo di essere imparziali”,  perché facciamo storia e non moralismo. Io quando scrivo evito di avere preconcetti e verità precostituite, quanto più è possibile, perché ovviamente l’imparzialità esiste fino a un certo punto. Però ci provo.

Quanto conta la Letteratura in senso ampio nella società attuale?

La saggistica è indispensabile. I libri molto specialistici come quelli che ho scritto io, traduzioni dal sanscrito o altri saggi di questo tipo si fondano su tutta una metodologia di ricerca e sono rivolti agli specialisti, a chi è molto appassionato, e sono forse fruiti da un pubblico più ristretto. Eppure il libro su Tucci è stato molto apprezzato anche dai lettori. Il segreto penso sia semplificare senza banalizzare. Per rispetto del lettore. Niente paternalismo, niente supponenza ma niente banalizzazione. La saggistica  in circolazione spesso è inconsistente, basata su cose che si mettono insieme facendo un po’ di ricerche su Google. In breve tempo è possibile così scrivere un volumetto che viene pubblicato e che la gente più o meno compra. È anche pieno di ghostwriters che scrivono per altri. Ci sono nomi famosi che scrivono saggi in un anno o due. Impossibile fare ricerca e dedicarsi alla stesura e poi tutto il lavoro che serve a produrre e pubblicare un saggio, lavoro proprio e di altri come redattori, proofreader, disegnatori, ecc., in un anno, e neanche in due. La saggistica seria è basata sulla filologia, cioè su dati, documenti, ricerche d’archivio, interviste, documentazione fotografica e film originali, materiale possibilmente inedito, ricerche mai fatte. Non è mettere insieme cose già note in un “pacchetto libro”. È la rielaborazione creativa di quello che c’è, ma va prima cercato e trovato. Io mi appassiono solo a questo: la caccia. Vado a caccia di tesori, documenti, reperti, persone da intervistare. Diversamente mi annoio e penso sempre: se mi annoio io figuriamoci gli altri. Per quanto riguarda la letteratura in senso ampio io non so fare letteratura, a meno che il thriller pubblicato tre anni fa, Guglie Rosse, non sia letteratura. È piaciuto ai lettori ma è letteratura di intrattenimento, però leggo tantissimo, specie la poesia, i classici greci e latini, le epiche indiane, la letteratura filosofica e la giurisprudenza indiana antica, qualche poeta moderno europeo, la letteratura americana come T. S. Eliot, Emily Dickinson o Ezra Pound. In questo sono favorita dal conoscere bene la lingua. Penso che il mondo abbia assolutamente bisogno di poesia perché ci porta su un altro piano, in una dimensione migliore, un po’ come la danza. Io ho studiato un po’ danza da ragazzina, classica e poi jazz. È un’arte e una disciplina. Anche la poesia. Anche l’opera mi piace moltissimo, andavo spesso con mio padre a teatro e poi da adulta andavo a vedere i balletti, che piacciono a pochi perché sono anche molto tecnici, sono un’arte più difficilmente fruibile rispetto alla musica, per esempio, ma che io apprezzo tantissimo. La cultura anche scientifica e tecnica, le arti: questo rende bella la vita e ci rende un po’ migliori. 

Tra le sue esperienze di vita, oltre che di lavoro, qual è quella più significativa che porta nel cuore?

Quando sono stata in Nepal a lavorare sei mesi sono stata benissimo ma il Paese che porto di più nel cuore è l’India, lì sono stata molto felice. Si vive bene, anche senza lusso.  Le persone sono calme, gentili, accomodanti. Anche se c’è caos, va a finire sempre tutto bene. Anche in America sono stata molto bene, però lì è il contrario dell’India, sono estremamente organizzati ma vanno in tilt se c’è qualcosa che esula dagli schemi. Non sono abituati a improvvisare, a inventare, a essere creativi. Lì vivono tutti in gruppi che definiscono nettamente il senso di appartenenza a una categoria. Anche i poeti lì sono inquadrati in comunità, in organizzazioni, non esiste come da noi l’individualismo sfrenato, che però ci dà anche dei vantaggi, nel senso che ce la caviamo in qualsiasi situazione, sopravviviamo comunque. Troviamo soluzioni. Il gruppo protegge ma limita anche. Quando ero in America, oltre all’università, per qualche mese ho insegnato anche in un liceo pubblico di 1300 studenti. La scuola era nettamente divisa in due; da una parte i gruppi di ispanici e gli studenti di colore, gruppi che non controllava neanche la polizia, dall’altra tutto il resto, i bianchi. Io ero assegnata ai gruppi “difficili” di colore ed è stata un’esperienza immensa, per quanto dura. Mi hanno dato moltissimo. E sono riuscita a far entrare una ragazza nera che la notte lavorava come cameriera in un buon college. Forse l’ho aiutata a cambiare la sua vita in meglio, ad avere delle possibilità in più. Mi ha reso felice poter fare qualcosa per lei. L’America mi ha insegnato tantissimo.

Enrica-Garzilli

Da quanto tempo si è trasferita nuovamente in Italia?

In pianta stabile da qualche anno. Prima andavo ogni estate a insegnare ad Harvard, da giugno a fine settembre, stavo quattro mesi lì e sette qui. Insegnavo qui e insegnavo lì. Mi manca molto l’America.

In qualità di docente, qual è il messaggio che cerca di trasmettere ai suoi allievi e come vede il futuro per i giovani?

Il futuro per i giovani lo vedo molto duro, ma lo è stato anche per noi. Molto duro in Italia, francamente. Ci sono poche chance, a mio parere, a meno di non fare cose molto innovative, soprattutto in campo economico o medico. Gli altri settori sono già saturi e comunque non pagano in termini di lavoro. Il mio messaggio è un invito a fare le cose seriamente ma con leggerezza, perché tutto passa, il bello come il brutto, ma ci sono dei valori che rimangono. La cultura è uno di quelli. La formazione interna è tutto, la cosiddetta mindfulness, avere valori sani, quali la protezione dei deboli, dell’ambiente, la famiglia. E coltivare lo spirito, non si vive di solo pane. Quando parlo di deboli non intendo solo i profughi, ad esempio, ma anche I bambini, gli anziani, le persone portatrici di handicap, i malati. Anche le piante e gli animali, che sono i deboli per eccellenza. Il mio messaggio ai giovani è  affrontare le cose per se stessi ma anche per quello che si lascia al mondo. Bisogna lasciare il mondo, nel nostro piccolo, migliore di come lo abbiamo trovato. Come dice Madre Teresa di Calcutta: quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano ma, se non lo facessimo, l’oceano avrebbe una goccia in meno. Ognuno deve fare la sua parte per la reciproca felicità. Per creare pace e bellezza. Quando un gruppo di studenti di dottorato dell’Università di Torino alla fine del corso mi ha mandato una email ringraziandomi “per quello che ci ha insegnato e per quello che ci ha trasmesso” ho sentito che il mio lavoro non era stato invano. Sono riuscita a lasciare qualcosa, aldilà delle nozioni. Un segno. Questa per me è cultura. Le nozioni si leggono, il valore della cultura, che è rispetto – anche degli orari e dell’impegno, non solo delle relazioni – non si legge. Si trasmette. È stata un’immensa soddisfazione. Sono molto grata a quegli studenti.

In riferimento a questo preciso momento storico, quali sono le Sue considerazioni, qual è il suo punto prospettivo guardando al domani?

Al momento siamo assolutamente smembrati, grazie anche alla complicità di un certo tipo di giornalismo, grazie all’ex primo ministro che ha finanziato la pubblicità alla campagna vaccinale e ha addomesticato i media. Il nostro giornalismo, che già non si distingueva per la libertà di stampa, è peggiorato tantissimo, ormai è quasi tutto propaganda. Non informa, non dà la notizia, non comunica, approfondisce: sui quotidiani ormai ha la pretesa di educare e ammaestrare il popolo bue. Dapprima la propaganda per il vaccino, adesso la propaganda per la guerra.  Ma la gente non è più come prima, non crede più a tutto quello che legge. Io non ci credevo già prima. Ho collaborato con molte testate che mi hanno lasciato completamente libera perché col metodo filologico esponevo e approfondivo solo i fatti partendo da notizie sicure, verificabili e verificate. Creare verità e bellezza fondandosi sulla filologia, sulla verità. La verità è un processo euristico e ci si può solo avvicinare a essa, affrontando un problema sotto diversi punti di vista. Proviamo a cercarla, ricostruirla e praticarla. Proviamo a costruire un dialogo perché è da qui che nasce la pace. Io mi occupo principalmente di Esteri, di Diritti Umani e di Cultura. Sono stata sempre libera di scrivere quello che ritenevo opportuno, ovunque. Ma so di altre testate dove le direttive editoriali sono stringenti. Dove sta la libertà? Se il giornalismo è imbavagliato è la libertà che è imbavagliata. È la verità che è imbavagliata. In prospettiva, guardando al futuro, ho una visione pessimistica a livello politico anche per la questione della guerra in Ucraina. Ci siamo imbarcati in qualcosa di enorme. A mio avviso doveva rimanere un conflitto fra due Stati, l’Italia non doveva essere così pesantemente implicata in prima linea. Il nostro attuale primo ministro si mostra come il più americanista d’Europa e le sanzioni alla Russia penalizzeranno innanzi tutto noi. Mi risulta che le francesi Renault, Decathlon, Auchan siano rimaste in Russia, per esempio. E poi c’è il problema dei profughi, un problema per loro ovviamente ma anche per noi. Sono quasi tre milioni e l’America, alla fine, è disposta ad accoglierne solo un numero davvero esiguo, qualche decina di migliaia. A livello sociale ed economico questa politica verso l’Europa e l’Italia è disgregante. È tutto troppo. Ho visto pensionati italiani frugare nella spazzatura, gente che viveva in piccolo ma andava avanti dignitosamente e che adesso non ce la fa più. Non mi sembra giusto. Bambini italiani a cui a Roma è stata rifiutata l’iscrizione alla scuola dell’obbligo per far posto ai nuovi bambini profughi. Centinaia di minori profughi dall’Africa e dall’Est non accompagnati. In che mani finiranno? Al Sud ci sono tanti laureati che lavorano full-time con uno stipendio di poche centinaia di euro al mese. I morti sul lavoro sono aumentati e il nostro governo non se ne sta occupando. È tutta una situazione sociale ed economica ingiusta che penalizza fortemente i cittadini e a cui dovremmo porre un rimedio. Intanto non accettandola. Bisognerebbe sviluppare più senso critico e capacità di ragionare, sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Coltivare la libertà e coltivare la cultura della pace. E bisogna iniziare a capire che l’America non riuscirà più ad essere la prima, mai più “America first”, dovranno accettarlo gli amici statunitensi e dovremo accettarlo noi. E’ una guerra dannosa sotto tutti i punti di vista. Grazie a questa guerra anche l’Asia si è compattata, non solo l’Europa, e non sta dalla parte dell’Occidente. Non si può fare la guerra a due terzi del mondo. Noi italiani ormai siamo ridotti a non pensare. Ci hanno programmato con oltre due anni di intensa, martellante propaganda e penalizzato in tutti i modi se minimamente dissidenti. Ma qualcosa si sta smuovendo. La gente sta aprendo gli occhi. E penso che la cultura – e anche la poesia! – possano aiutare a far rinascere lo spirito critico. La cultura è un valore e porta valore. È libertà di pensare e di pensiero. La cultura fa la differenza. 

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Lorena Coppola

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