Il ruolo dell’Università nel Mezzogiorno: intervista a Matteo Lorito, Rettore dell’Università Federico II di Napoli

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Matteo Lorito, salernitano di origini, laureato in Biologia presso l’Università di Siena, dal 2006 è Professore Ordinario di Patologia Vegetale e di Biotecnologie Fitopatologiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Insignito di numerosi i premi e riconoscimenti alla meticolosità del suo attento lavoro di ricerca sia a livello nazionale sia internazionale: nel 2007 è stato nominato Fellow della American Phytopathological Society; nel 2014 è stato eletto membro della European Academy of Sciences and Arts. Significativi, in ambito accademico, i ruoli ricoperti dal Prof. Lorito che, attualmente, riveste la carica di Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, il più grande ateneo del Sud Italia. È stato Direttore del Dipartimento di Agraria dell’Ateneo Federico II ed è membro del Senato Accademico, nonché del Comitato Scientifico del Presidio di Qualità. Ideatore del corso di Laurea in Scienze Gastronomiche Mediterranee, con attenzione ai processi produttivi legati alle specificità territoriali. È stato, inoltre, il primo Rettore a conferire la nomina di prorettore a una donna nell’Ateneo Federiciano, la Professoressa Rita Maria Antonietta Mastrullo. Nel 2018 ha ricevuto il premio Guido Dorso per la Sezione Università (XXXIX edizione) presso Palazzo Giustiniani sede di rappresentanza del Senato della Repubblica Italiana. Prima di iniziare l’intervista, ricordiamo le parole che pronunciò all’atto della sua premiazione:

L’Università al Sud: una sfida da vincere

Ho l’onore di dirigere una struttura importante che appartiene alla tradizione, l’ex Facoltà di Agraria di Portici; quasi 150 anni di storia in cui si può facilmente trovare un filo conduttore tra personalità autorevoli come Guido Dorso, Manlio Rossi Doria e Giuseppe Galasso. Da meridionale e meridionalista appassionato, ho provato a scappare due volte dal Sud e due volte vi sono ritornato per una decisione di pancia e non di testa. Mi trovavo stabilmente con mia moglie negli Stati Uniti a lavorare in una grande università dove tutto funzionava e siamo tornati a Napoli molti anni fa (a farlo oggi sembrerebbe una follia) con l’idea di cogliere una sfida: riuscire a fare quello che facevamo lì. Questo premio rappresenta la chiusura del cerchio. Per il settore agroalimentare (Food Science and Technology) la Federico II oggi è al primo posto fra le venti migliori università italiane ed è ventesima nella classifica mondiale, superando di un posto l’università americana dove lavoravo; le sfide si possono vincere, ma a noi interessa soprattutto che i nostri laureati trovino lavoro e che riusciamo ad essere attrattivi per i giovani; come è successo ad esempio per il nuovo corso di laurea che abbiamo da poco attivato in Scienze gastronomiche mediterranee. Questo dimostra che al Sud sappiamo fare una buona università e continueremo a farla.

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Matteo Lorito, Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II – Cerimonia di Premiazione Premio Guido Dorso – Palazzo Giustiniani – Senato della Repubblica – 2018

Rettore di uno dei più importanti atenei del mondo, come vive questo ruolo di prestigio e di grande responsabilità?

Lo vivo con appunto un grande senso di responsabilità e in questo periodo anche di apprensione, perché quella che è la vita naturale, a regime, di un grande Ateneo oggi è difficile, è più complicata. L’Ateneo sta andando avanti, stiamo riuscendo a fare un po’ tutto quello che dobbiamo fare, abbiamo assicurato i nostri servizi agli studenti, al territorio, ma naturalmente è una situazione per alcuni versi di attività sospesa perché non riuscire ad avere ancora le aule piene di studenti è un problema anche di impatto, è un problema anche di funzione dell’Ateneo ma ci stiamo arrivando.

Com’è stato affrontato il lockdown? A Suo avviso la pausa forzata dell’attività didattica in presenza ha influito sulla qualità dell’insegnamento?

Dobbiamo dire prima di tutto che la didattica a distanza ha consentito di non spegnere l’Ateneo. La Federico II è un grande Ateneo che nel giro di pochissimi giorni è riuscito a portare a distanza tutti i suoi corsi, 260 corsi di studio, e quindi abbiamo erogato migliaia di discipline, di lezioni, migliaia di esami, migliaia anche di esami di laurea. Quindi la DAD in una fase emergenziale ci ha consentito di entrare nelle case e anche di strutturare la giornata dei giovani costretti a stare a casa durante il lockdown. Successivamente abbiamo realizzato una risposta che potremmo definire un po’ a fisarmonica, nel senso che abbiamo predisposto dei piani di rientro controllati, quindi, sulla base delle capienze disponibili, abbiamo tenuto i dipartimenti aperti e abbiamo aperto man mano che le condizioni normative ed epidemiologiche ce lo consentivano, per poi richiudere quando la Regione cambiava colore, passando dall’arancione al rosso. Adesso sono stati riattivati i piani del secondo semestre, quindi i ragazzi, in una percentuale ovviamente limitata, stanno tornando in aula con una presenza oggi vicina al 20%-30% degli studenti e questo serve anche a dare un segnale, nella speranza che nel prossimo anno accademico, partendo dal primo semestre, si possa rientrare in condizioni più vicine alla normalità.

Ha vissuto a lungo negli Stati Uniti e in altre nazioni, quali sono le principali differenze relativamente ai sistemi didattici?

Il sistema italiano è profondamente diverso da quello anglosassone in generale e in particolare da quello statunitense, che ho vissuto personalmente per diversi anni. Noi abbiamo un sistema universitario nazionale, cosa che in realtà non esiste negli Stati Uniti, perché è vero che ci sono i college “statali” ma non c’è un coordinamento nazionale, seppur, naturalmente ogni ateneo ha la sua autonomia. Il fatto che in Italia abbiamo un sistema nazionale consente di fare in modo che gli interventi normativi, quelli del Ministero e anche gli interventi di natura politica si estendano a un po’ a tutto il territorio nazionale. Certo, idealmente, allo studente di Palermo dovrebbe essere esattamente garantito il diritto allo studio allo stesso modo dello studente di Udine o di Milano, ma qui intervengono naturalmente le differenze di natura territoriale. Sicuramente fare grande università a Napoli non è la stessa cosa che farla a Milano, questo è fin troppo chiaro. Negli Stati Uniti il sistema universitario è molto competitivo, è un sistema che si basa essenzialmente sul contributo dello studente, anche economico, anche se gli studenti hanno dei supporti economici esterni molto importanti, ma naturalmente è un sistema molto diverso, in cui anche il percorso di studi è garantito; infatti in America non è frequente che vi sia uno studente fuori corso, si segue un sistema sostanzialmente diverso.

Lei ha dichiarato che La Sua idea di Ateneo è un’Università aperta al mondo, quali sono a Suo avviso gli strumenti di internazionalizzazione più efficaci?

Gli strumenti sono molti e sono diversi, La Federico II ne ha già in dotazione alcuni. Il primo è la qualità e la reputazione della didattica di un grande Ateneo.  Il secondo − ma questa è una scelta politica − è di avere un Ateneo che abbia la capacità di erogare un servizio formativo e anche un servizio in termini di ricerca in tante diverse discipline. Quello che manca a questa Università, su cui dovremmo lavorare molto, è un livello di accoglienza e di servizi che sia all’altezza di quello dei grandi Atenei internazionali, ma questo è parte anche del problema di contesto, perché è chiaro che i servizi di un grande Ateneo vanno di pari passo con i servizi della città che lo ospita e ricordo sempre a tutti che la Federico II è profondamente intrisa della città metropolitana di Napoli, quindi, se Napoli va bene, va bene anche l’Università, se l’Università va bene può andar bene anche Napoli. Non siamo un campus esterno che vive di luce propria, siamo un Ateneo molto diffuso, con un numero incredibile di sedi sparse per tutta la regione e quindi fa anche un po’ da tessuto connettivo tra diverse aree, tra diverse territorialità della nostra regione.

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Come si pone l’Università italiana tra tradizione e innovazione? Quale futuro intravede, anche dal punto di vista organizzativo?

Quando si parla di tradizione, per un Ateneo come il nostro significa avere una piena considerazione di quella che è la nostra valenza culturale. La tradizione dell’Ateneo è il valore della cultura che è stata costruita e realizzata all’interno dello stesso. Un  Ateneo − a differenza di una scuola di secondo grado, ad esempio, che può essere anche ottima − è un soggetto che, oltre a trasmettere la conoscenza, la crea, la studia, la innova, la trasferisce  nel mondo del lavoro e in questo avere una grande tradizione è importante, perché, naturalmente, se ragioniamo su quello che è solo il patrimonio culturale, monumentale, artistico, museale della Federico II, è impressionante, forse potrebbe essere addirittura quello più ricco tra tutte le grandi università italiane, talmente ricco che neanche noi lo conosciamo nei minimi dettagli. Questo, ovviamente, ci dà una forza, un punto di partenza importante. L’innovazione deve nascere dal coltivare le idee, dal fatto di creare un contesto all’interno dell’Ateneo in cui le idee possano confrontarsi, possano nascere, possano evolversi; un contesto in cui anche l’innovazione, la novità possa essere in qualche modo coccolata, possa essere sviluppata e questo ovviamente è un po’ più difficile, perché bisogna avere anche le strutture, bisogna fare la giusta scelta politica, bisogna fare delle scelte importanti anche dal punto di vista del reclutamento, perché questo è un Ateneo che negli ultimi anni ha portato a ruolo tra i 500/600 ricercatori giovani o diversamente giovani, rinnovando un quinto del nostro corpo docenti. Questo naturalmente fa ribollire l’Ateneo di innovazione e di nuove idee. Poi bisogna avere la possibilità, e su questo abbiamo ancora molto da lavorare, di fare in modo che i prodotti di queste idee arrivino all’esterno e in tal senso abbiamo dei casi molto interessanti che oggi sono diventati dei casi anche di livello nazionale, come il modello del Polo Tecnologico e Campus Universitario di San Giovanni a Teduccio San Giovanni che oramai conoscono tutti, che consente ai ragazzi di studiare, di fare impresa e specializzarsi a diretto con aziende anche grandi.  

Università degli Studi di Napoli Federico II

Qual è il ruolo dell’Università nel Mezzogiorno nell’ottica del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza)?

Io credo che il PNRR senza un contributo forte da parte degli enti di ricerca e di formazione non riuscirà a raccogliere pienamente questa grande sfida. Si tratta di spendere questa grande quantità di risorse nel modo migliore in un tempo ridotto e in questo gli italiani non sono molto bravi. Quindi l’Università può aiutare molto, rimane il punto fondamentale che alla base del PNRR − e anche della Next Generation EU − c’è la riduzione dei divari. Se lavoriamo sulla riduzione dei divari, potremo dare veramente un nuovo impulso al Paese. Chi pensa o chi immagina che il problema del PNRR o di Next Generation EU si possa risolvere dando più soldi a chi “appare più eccellente” o lavora in un contesto economicamente più favorevole commette un gravissimo errore. Basti pensare che la Federico II attualmente ha una no tax area che copre il 60% dei suoi studenti e stiamo parlando di circa 80.000 studenti. Quindi, per reggere questa funzione di ascensore sociale, ci vogliono le risorse. Naturalmente la no tax area, come si può immaginare, è ben diversa a Napoli piuttosto che a Milano o a Bologna dove la redditività e la ricchezza del territorio sono diverse. Quindi il PNRR è uno strumento che, se utilizzato bene, può fare dell’Università uno degli attori per eccellenza per individuare le soluzioni migliori intervenendo sui territori. Bisogna tener presente che le grandi università hanno la capacità e la possibilità di modificare i territori, come nel citato caso San Giovanni o come stiamo facendo a Scampia, situazioni in cui riusciamo a dare un impulso. Se il PNRR riesce a cogliere questo, e io credo di sì, potremo vedere un’evoluzione territoriale importante nei prossimi 5 o 6 anni, con l’Università che in qualche modo spinge e svolge il suo vero ruolo di terza missione, che è quello di sostenere i territori. 

Come si struttura in ambito territoriale la relazione tra Università e sistema impresa?

È una relazione molto stretta. Checché se ne dica, come affermavo prima, l’impresa non né uguale in tutte le aree del Paese. Ci sono aree in cui ci sono pochissime imprese di grandi dimensioni e tantissime piccole e medie imprese, com’è il caso della Campania, che è una delle aree più popolose del Paese. Quindi l’Università deve in qualche modo anche adattarsi a questo. È chiaro che una grande Università ha rapporti con le imprese a tutti i livelli, sia nel proprio territorio sia a livello nazionale, basti pensare al sistema basato sulla  Academy, che ormai ha raggiunto quasi 10 diverse realtà in tante grandi imprese sia nazionali sia internazionali, come Apple, CISCO, Accenture, TIM, Ferrovie dello Stato e quant’altro, ma, ovviamente, il rapporto più intimo, più quotidiano, più diretto è con le imprese che sono sul territorio ed è un rapporto complicato perché la piccola-media impresa spesso non ha né la capacità, né la possibilità di fare importanti investimenti nella ricerca. Quindi l’Università deve mettersi in gioco da questo punto di vista, inquadrare bene, interpretare bene le esigenze di questa parte del Paese e dare una risposta. Naturalmente questa è anche una scelta politica, perché per fare ciò ci vogliono risorse, visto che stiamo parlando di grandi atenei pubblici.

A Suo avviso, quali sono gli strumenti per promuovere un maggiore interattività tra territorio e Università?

Nel caso specifico della Federico II − operando all’interno di una città come Napoli che oggi ha la fortuna, fra le sue tante sfortune e sciagure, di avere al proprio interno un Ateneo grande con un bilancio solido, che riesce a tenere migliaia di ragazzi in no tax area − l’Università riesce a far crescere il livello di conoscenza, riesce a sostenere le aziende, riesce a fare una formazione di livello internazionale, riesce a mantenere attività di ricerca che poi si traducono in spin-off e start-up, quindi generando di continuo imprenditoria giovanile anche all’interno della città. Questo può essere un punto di partenza per la rinascita di Napoli. Si tratta ovviamente di utilizzarlo nel modo migliore. Noi siamo stati sempre a disposizione, sia dal punto di vista del contributo politico a quella che è l’amministrazione cittadina sia per quanto riguarda il contributo scientifico, culturale, di interazione. Quindi aspettiamo di continuare a farlo, aspettiamo l’esito delle prossime elezioni. Siamo sicuri di poter dare un contributo e speriamo che tale contributo venga apprezzato e raccolto dal prossimo Sindaco di Napoli.

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Matteo Lorito, Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II – Cerimonia di Premiazione Premio Guido Dorso – Palazzo Giustiniani – Senato della Repubblica – 2018

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Crediti fotografici: Effetto Media

Lorena Coppola