Monica Florio, scrittrice e giornalista partenopea, autrice di numerose opere di narrativa e ricerche storico-sociali su Napoli, nel 2020 ha pubblicato Storie di guappi e femminielli edito da Guida Editore, un’opera di grande interesse storico-culturale, frutto di una lunga ricerca basata su fonti letterarie, giornalistiche e iconografiche. Un percorso narrativo che si pone in una prospettiva di ricostruzione e di analisi, conducendo il lettore in un viaggio tra tradizione e modernità, ricco di spunti di riflessioni di carattere sociologico e antropologico.

Monica Florio - "Storie di guappi e femminielli"

“Storie di guappi e femminielli”, è il titolo del Suo ultimo saggio, pubblicato da Guida Editore, qual è la genesi di quest’opera?

Il mio libro si ricollega a una precedente monografia in cui ho esplorato con un approccio divulgativo la figura del guappo. Alla riflessione in chiave critica su tale personaggio si è aggiunta ora l’analisi del femminiello che ha rappresentato per me un soggetto inedito e, in quanto tale, ha richiesto un attento lavoro di ricerca. Elemento di collegamento tra questi due personaggi così antitetici, a dispetto della comune estrazione popolare, è la realtà del vicolo. 

Sergio Zazzera nella prefazione al volume, parla di “figli di Parthenope” e fa riferimento alla distinzione tra “napoletanità” e “napoletanitudine”, come definirebbe Lei, personalmente, l’identità partenopea?

Per identità partenopea si intende, a mio avviso, l’insieme di quei caratteri e aspetti comuni che denotano l’appartenenza alla città. Gli elementi comuni ai guappi e ai femminielli sono: la gestualità enfatica, il sentimento religioso, il gusto eccessivo che sfocia in un abbigliamento vistoso e tendente al pacchiano. Altro tratto essenziale dei napoletani è l’ironia che è propria del femminiello ma non del guappo, del tutto privo di senso dell’umorismo e abituato a prendersi sempre sul serio.

Nell’introduzione Lei afferma: “È importante tramandare, nel bene e nel male, la memoria della Napoli delle origini”. A Suo avviso, quali sono oggigiorno i mezzi per tramandare la memoria secolare della città?

Purtroppo, le testimonianze di chi ha vissuto nella Napoli del vicolo sono abbastanza rare, perché quel contesto è parte di un passato ormai sepolto, come i guappi che sono del tutto scomparsi. A ogni modo, la memoria secolare della città è custodita negli archivi ma nel mio lavoro di ricerca mi sono spesso avvalsa del web, che è un vero e proprio contenitore di informazioni, utili a chi abbia bisogno di documentarsi.

Il “vicolo” assume valenza di simbolo?

Sì, è il simbolo di una Napoli che in questo microcosmo autosufficiente e indipendente si riconosceva. Tra la gente del vicolo esisteva quella solidarietà istintiva che si ritrova spesso nelle famiglie, con un rispetto dei ruoli e dei compiti. Oggi la realtà del vicolo è completamente mutata perché le regole a cui ci si atteneva in passato non esistono più né c’è un garante come il guappo che provvedeva a farle rispettare ma un’organizzazione capillare e anonima a cui devono tener conto anche i piccoli malavitosi. Resta ancora la memoria storica perché ci sono alcuni che ricordano quei personaggi che hanno fatto la storia del vicolo.

Come Lei stessa afferma, la Sua, più che una rievocazione, è una ricostruzione della realtà, in che modo si sviluppa questo aspetto analitico nella struttura narrativa del testo?

Il mio saggio intende ricostruire una realtà minoritaria ma estremamente rappresentativa della storia del costume di Napoli come quella dei guappi e dei femminielli. La rievocazione porta inevitabilmente a idealizzare il passato e scade nella nostalgia. Il mito del guappo “criminale buono e altruista” è, ad esempio, una negazione della realtà storica perché l’immagine del giustiziere appartiene al mito. Non dimentichiamo che i guappi erano mossi da interessi personali più che dall’amore per la giustizia e si imponevano prevaricando e sfruttando la gente del popolo. 

Monica Florio - "Storie di guappi e femminielli"

Quali sono le possibili chiavi di lettura di questo testo?

Mi premeva delineare la fisionomia di guappi e femminielli provando a raccontare la loro storia in modo da evitare gli stereotipi che, se contengono un fondo di verità, offrono, però, un’immagine approssimativa e riduttiva di ciò a cui si riferiscono. Al tempo stesso, il libro si può considerare un viaggio letterario in una Napoli che, almeno in parte − dato che i femminielli sopravvivono tuttora con i loro riti − non esiste più, soppiantata dal nuovo, da quel progresso tecnologico che ha spazzato via gli antichi mestieri, tramandati di generazione in generazione tra la gente del vicolo. 

Come definirebbe il Suo intento letterario?

C’è sempre una continuità in ciò che scrivo in quanto tutta la mia produzione letteraria, oltre a essere profondamente legata alla mia città, ruota attorno a una riflessione sulla violenza e sulla difficoltà di essere se stessi in un mondo dominato dall’intolleranza. Ecco perché nel saggio attuale ho incluso il mio racconto su Tonino ‘O femmenella, apparso nel 2012 nella raccolta Il canto stonato della Sirena.

Il Suo è uno studio di carattere antropologico?

In parte sì, per l’interesse nei confronti delle culture locali, lo studio delle differenze e delle somiglianze culturali esistenti tra i vari gruppi di persone, perché esiste una natura umana universale che unisce gli individui pur appartenenti a differenti contesti. Poiché la cultura si apprende, le persone che vivono in diversi contesti ambientali posseggono culture differenti ma anche elementi comuni. Ad esempio, il femminiello è una figura radicata nel contesto napoletano ma non è un caso isolato in quanto in altre società vi sono soggetti atipici che vivono la propria sessualità in un modo che non rispecchia quello del loro sesso. Non sono riconducibili al consueto binarismo di genere uomo/donna i Bardache tra gli indiani d’America, i Fa’afafine nella società polinesiana, gli Hijras nel sud dell’India, i Muxe in Messico. Nell’esibire con naturalezza la loro condizione i femminielli si possono accostare ai Muxe, che godono di un riconoscimento a livello sociale in quanto guaritori e veggenti.  

La figura del “guappo”, con tutte le sue declinazioni, è stata spesso oggetto di indagine storico-culturale. Ricordiamo anche il celebre film di Pasquale Squitieri “I guappi”. Spesso le definizioni contengono in maniera intrinseca una “connotazione”, come ha affrontato sul piano sociologico questo aspetto?

Ogni parola, al di là di ciò che denota, rimanda a una serie di significati impliciti, positivi e negativi. Ad esempio, il termine guappo, traducibile come coraggioso e gradasso, ha conservato il significato non univoco dello spagnolo guapo da cui deriva, usato nella duplice accezione di spaccone e galante. Il termine guappo, di per sé polivalente, mantiene un significato negativo nei proverbi, che riflettono l’immagine minacciosa e pericolosa a cui è associato nell’immaginario popolare. Ecco che nel mio libro il discorso su questo personaggio conduce inevitabilmente a quello sulla violenza poiché si tratta di un esponente della malavita non organizzata da analizzare anche in rapporto alla camorra.  Poiché il linguaggio rispecchia il modo di pensare, non sorprende che i significati attribuiti ad alcuni termini riflettano gli stereotipi e i pregiudizi comuni. Ad esempio, femminiello è presente nei dizionari del dialetto napoletano nella forma femminile, femminella, che indica il diminutivo di femmina e l’uomo debole, effeminato e pettegolo. Nel mio saggio ho voluto valorizzare questa figura e, nel farlo, il mio sguardo dal passato si è posato sul presente, nel quale gli episodi di intolleranza come quello del murale imbrattato raffigurante la Tarantina, icona dei femminielli, riporta alla questione della stigmatizzazione dell’universo LGBT.

Monica Florio - "Storie di guappi e femminielli"

Ponendosi in una prospettiva attuale, senza tralasciare le radici storiche, nel concetto di “modernità” e nella panoramica più ampia del Meridione, in che modo i temi da Lei trattati si inseriscono in un’ottica di comprensione dei mutamenti e delle trasformazioni sociali della nostra epoca?

Attraverso la realtà del vicolo, in cui convergono guappi e femminielli, è possibile comprendere le dinamiche di trasformazione di una città il cui volto, in particolare con il terremoto dell’Ottanta e l’escalation di violenza che ne è derivata, è profondamente cambiato. Pur esistendo ancora sul piano topografico, il vicolo ha mutato fisionomia, accogliendo gli extracomunitari e le attività commerciali per turisti. L’occupazione di un territorio sentito come proprio ha determinato un forte disorientamento nei femminielli, costretti a spostarsi in quartieri anonimi come Bagnoli, Ponticelli e Scampia e privati di quella solidarietà a cui erano abituati. L’immagine di Napoli quale metropoli umana e rispettosa delle differenze è stata offuscata dai frequenti episodi di violenza ai danni del mondo LGBT che dimostrano l’involuzione della città, sempre più spaccata in due.

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Lorena Coppola

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