Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede 3,68 miliardi per la voce “INTERMODALITÀ E LOGISTICA INTEGRATA“: si intende in particolare sviluppare un sistema portuale competitivo su tutto il territorio nazionale attraverso il potenziamento della competitività del sistema portuale italiano in una dimensione di sostenibilità e sviluppo delle infrastrutture intermodali sulla base di una pianificazione integrata e realizzazione dei collegamenti di ultimo miglio dei porti, inoltre, si punta sulla sostenibilità ambientale e sull’efficientamento energetico dei porti (i cosiddetti Green Ports) e ancora sulla digitalizzazione della catena logistica e del traffico aereo ed infine sulla riduzione delle emissioni connesse all’attività di movimentazione merci.
È menzionato il Progetto integrato Porti d’Italia a cui vanno 3,32 miliardi così suddivisi:
- 2,10 miliardi per “Porti e intermodalità collegati alle grandi linee di comunicazione europea e nazionali e per lo sviluppo dei porti del sud”;
- 1,22 miliardi per Green Ports e Cold Ironing;
Su questo progetto il ruolo di protagonisti è dei due porti di Genova e Trieste, poiché i due progetti principali sono:
– Realizzazione della nuova Diga Foranea di Genova;
– Progetto Adriagateway per il potenziamento del sistema logistico del Porto di Trieste.
Per gli altri porti viene fatto un rinvio al piano Italia Veloce del MIT che cita:
– Ultimo miglio ferroviario e stradale (Porti di Venezia, Ancona, Civitavecchia, Napoli, Salerno);
– Resilienza infrastrutture e cambiamenti climatici (Porti di Palermo, Salerno, Manfredonia, Catania e Venezia);
– Accessibilità marittima (Porti di Vado Ligure, Civitavecchia, Taranto, Marina di Carrara, Napoli e Salerno e Brindisi);
– Aumento capacità portuale (Porti di Ravenna, Cagliari, La Spezia, Napoli, Trapani e Venezia);
– Efficientamento energetico e ambientale: porti dello Stretto di Messina.
La domanda che nasce è: Possibile che alle infrastrutture portuali sia riservata una quota dell’1,6% delle risorse di un piano di sviluppo così importante? Qual è inoltre la quota per i porti meridionali, atteso che i progetti citati per il Recovery sono solo quelli (pur importantissimi) di Genova e Trieste? Il dibattito sulle risorse del Recovery Fund e sul ruolo che esso potrà svolgere per supportare la logistica portuale del Sud ha fatto nascere l’esigenza di far capire cosa volesse dire il Mezzogiorno in termini di sviluppo del sistema marittimo. Ebbene in generale, l’economia del mare rappresenta uno dei settori di punta del sistema Paese: nel Mezzogiorno essa produce un valore aggiunto di oltre 15,5 miliardi di euro (il 33,3% del totale nazionale) e conta oltre 87 mila imprese (il 44% del totale nazionale).
Restringendo il campo al settore portuale, il Sud è la macro-area, delle quattro italiane, che movimenta più merci con 84,3 milioni di tonnellate; incide per il 42% del totale sul traffico merci italiano. Il Mezzogiorno possiede porti che hanno una vocazione multipurpose e porti specializzati, come ad esempio Gioia Tauro, grande scalo di transhipment e Augusta, scalo dedicato ai prodotti petroliferi. La portualità del Sud è inoltre molto vocata al Ro-Ro (trasporto autoveicoli e mezzi pesanti via nave) avendo nella sua macro-area la Sardegna e la Sicilia, la Puglia e la Campania che sono tra le regioni con maggiore propensione a questa tipologia di traffico.
Primi tre porti per ogni categoria di merce e livello di concentrazione del traffico sui primi tre scali
(Tonnellate e Teus per i container)
(Nb. Si è privilegiato il singolo scalo e non l’Autorità di Sistema per dare meglio contezza del luogo di partenza delle merci)
È significativo segnalare che le imprese del Mezzogiorno utilizzano, nei loro rapporti internazionali (import-export), la via marittima in modo più intenso delle imprese centro settentrionali. Infatti, il 62% dell’interscambio del Sud avviene via mare contro il 36% del dato Italia. E questo basterebbe per far comprendere anche ai non esperti la valenza di un comparto. Non va sottaciuto che anche il territorio meridionale ha risentito dell’impatto della pandemia; le cause sono sostanzialmente simili a quelle che hanno caratterizzato tutti gli scenari a livello nazionale. In primo luogo, guardando all’analisi del traffico e alla sua struttura dal 2016 si evince un calo generalizzato della quantità di merci movimentate che si è sentito nello scorso triennio, dovuto essenzialmente al periodo di difficoltà che hanno avuto i porti di Cagliari e Taranto (perdita dei container e questione Ilva); tuttavia proprio nel periodo COVID-19 i porti del Sud sono quelli che hanno registrato il calo minore di traffico: -0,8% contro -11,5% nazionale.
Vi è stato dunque un coefficiente di resilienza maggiore degli scali meridionali; ciò è interpretabile con una serie di riflessioni:
- l’incidenza del settore agroalimentare; comparto che non ha fermato le proprie attività durante la pandemia; le merci sono dunque arrivate alle imprese attraverso la logistica del Sud che ha fornito, come servizio essenziale del Paese, tutta la penisola.
- l’impennata del traffico di transhipment (+38,7% nel primo semestre) che ha visto protagonista il porto di Gioia Tauro che da aprile 2019 vanta la presenza della seconda compagnia al mondo del settore container, MSC.
- presenza importante del settore Ro-Ro e delle autostrade del mare (incide per il 47% sul totale Italia), comparto che ha saputo ben resistere alla pandemia, in quanto deputato anche al trasporto di autoveicoli pesanti che hanno continuato a circolare.
Altro dato interessante che emerge in rapporto alla pandemia riguarda la componente internazionale del traffico vale a dire l’import ed export marittimo. È opportuno premettere che il Sud ha una componente di interscambio marittimo che nel periodo 2017-2019 si è aggirata al di sopra dei 52 miliardi di Euro rappresentando un quinto dell’import export del paese. Analizzando i dati emerge un sostanziale allineamento del dato nazionale che registra cali di oltre il 20% in tutta la penisola.
I dati e le informazioni illustrati hanno comunicato in modo evidente che i porti del Mezzogiorno per il traffico importante che servono, per il loro posizionamento geografico, prossimo al canale di Suez ed al centro del Mediterraneo, per i mercati ed i settori serviti e per caratteristiche possono rivestire una posizione di primo piano per la ripartenza post-COVID-19, ma non solo. Se è vero che una logistica efficiente ed efficace è la base di un Paese per raggiungere livelli di competitività elevati anche per lo sviluppo del sistema manifatturiero, si rende quanto mai necessaria una strategia più attenta nei confronti di queste infrastrutture che vanno curate e finanziate nel modo giusto. Molti Paesi del Mediterraneo hanno preso coscienza di ciò mettendo in campo risorse importanti per lo sviluppo dei porti ed ora, con le nuove risorse che l’Unione Europea stanzierà per la ripresa dell’economia si dovrà giocoforza, da parte del nostro Paese, fare una riflessione sui porti in generale e in particolare su quelli meridionali che stanno anche ricevendo forti attenzioni da investitori esteri (ad esempio la multinazionale turca Yilport a Taranto).
Ci si potrebbe dilungare nel fare ulteriori esempi a dimostrazione del rilievo dei porti e di quanto sia importante tenere giusto riguardo a queste infrastrutture anche per il futuro. Solidità e resilienza sono due parole che hanno contraddistinto il nostro sistema logistico durante la pandemia e per il futuro dovranno quindi essere previste nuove strategie di crescita impostate su asset che vadano oltre l’attrazione del traffico (pur se fondamentale per un porto). Da tempo SRM nei propri studi ha individuato un modello portuale denominato “Porto 6.0” per affermare che le nostre infrastrutture marittime per essere competitive devono raggiungere livelli di eccellenza su sei assi: intermodalità, sostenibilità, internazionalizzazione, capacità di gestire Zone Economiche Speciali, rapporti con il mondo della ricerca economica e con l’innovazione. Obiettivi complessi da raggiungere ma non necessariamente tutti nel breve termine. I grandi porti del Nord-Europa (ad es. Rotterdam e Anversa), del Middle East (ad es. Dubai) e del Far East (ad es. Singapore e Shenzhen) hanno ormai impostato in questo modo le proprie strategie.
“Portualità 6.0”: è questa quindi la nuova chiave interpretativa che rimodella un porto moderno che deve essere un passo avanti all’industria, poiché deve servirla adeguatamente e con efficienza e deve anche saper dare un contributo alla crescita del territorio attraendo investimenti che creino occupazione e sviluppo. In generale, oggi più che mai occorrerà una presa di coscienza che il modello 6.0, specie se applicato ai porti del Sud (ma non solo), può essere un nuovo schema per uno scalo che vuole impostare corrette strategie di crescita, e dovranno essere questi i principi che dovranno animare le policy dei porti meridionali dove è in corso l’apertura di una nuova stagione, quella dell’attrazione di investimenti.