Il recente “Rapporto Italiani nel Mondo 2020”, curato dalla Fondazione Migrantes, fotografa la preoccupante situazione dei giovani italiani e l’emorragia di capitale umano rappresentato da quanti, soprattutto neolaureati, stretti nella morsa della crisi, tra precarietà e disoccupazione, sono costretti alla diaspora verso l’estero per iniziare –  in pochi casi per migliorare – la propria attività lavorativa. Secondo il Rapporto, negli ultimi 15 anni, gli italiani nel mondo hanno raggiunto i  5,5 milioni, con un incremento del 76,6% rispetto al 2006. Si tratta di un aumento degli italiani emigrati paragonabile a quello registrato nel Secondo Dopoguerra. Peraltro rispetto al 2006, la popolazione di migranti si sta ringiovanendo per effetto, tra l’altro, della nuova mobilità costituita sia da nuclei familiari con minori al seguito (+84,3%), sia dai giovani, per lo più neolaureati, in cerca di occupazione (+78,4%). Nel solo 2019 hanno ufficialmente lasciato l’Italia 131mila cittadini e complessivamente le nuove iscrizioni all’Aire nel 2019 sono state circa 258mila.

E il rapporto 2019 di Svimez (Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno) fornisce i dati della crescente diaspora dal Mezzogiorno: sempre negli ultimi 15 anni sono emigrati oltre 2 milioni di cittadini meridionali, di cui oltre 132mila nel solo 2017 e di questi il 50% sono giovani ed il 33% laureati. Ciò dimostra che se fino a qualche decennio fa la laurea garantiva nel nostro Paese un accesso sicuro al mondo del lavoro, quest’oggi, i laureati incontrano difficoltà ed ostacoli che li portano troppo spesso a dover espatriare, unica alternativa per evitare di essere sottopagati sebbene sovra-istruiti, come dimostrano le ottime posizioni degli atenei italiani nelle classifiche mondiali. Le cause di questa diaspora vanno ricercate, senza ombra di dubbio, nel mutato contesto lavorativo e professionale, ormai globalizzato, soprattutto se si guarda al sistema imprenditoriale e industriale.

È quasi obbligatoria un’esperienza di qualche anno all’estero, perché arricchisce il curriculum e il bagaglio di competenze. Ciononostante, è decisamente difficile accettare l’emigrazione, quella a tempo indeterminato, dei nostri giovani dovuta a mancanza di lavoro e di opportunità. Tale condizione, infatti, non nuoce solo alle famiglie in termini umani e affettivi, ma anche, e soprattutto, in termini sociali ed economici al territorio nel quale questi giovani hanno vissuto e si sono formati. Secondo l’Ocse, per ogni studente italiano, dall’asilo all’università, lo Stato, e quindi alla collettività, investe oltre 100mila euro e la Fondazione Leone Moressa nel Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, stima che, nell’ultimo decennio, la fuga all’estero ci sia costata 16 miliardi di euro, pari a oltre 1 punto percentuale di Pil, se consideriamo il valore aggiunto che i giovani emigrati avrebbero potuto realizzare se fossero rimasti nel nostro Paese.

E allora “fugge”, insieme a ciascun laureato che si trasferisce definitivamente all’estero, anche l’investimento della collettività in istruzione, sapere e conoscenza, senza contare che quel cervello contribuirà, peraltro, ad arricchire lo Stato nel quale trasferisce la residenza, in termini di produttività e pagando le tasse lì e non in Italia. Oltre il danno, la beffa. Il tutto nella quasi totale indifferenza del Sistema Paese che, per effetto di questo esodo, ha “regalato” negli ultimi 7 anni circa 23 miliardi di euro ad altri Stati, perdendo due volte: in termini di capitale economico-finanziari e sociale-umano. Scappano dall’Italia coloro che hanno costruito con sacrificio le proprie legittime ambizioni ed aspirazioni e le vedono mortificate da un Paese che spesso sembra voler mettere a tacere chi vale. Per invertire la rotta è indispensabile che in Italia e ancor più nel nostro Meridione siano incentivate le tante eccellenze. Occorre tornare a premiare il merito, troppo spesso non riconosciuto, non incentivato, non valorizzato.

È poi indispensabile creare le condizioni affinché ciascun territorio, con le proprie peculiarità, possa tornare ad essere attrattivo tanto per le grandi realtà imprenditoriali, quanto per i nostri cervelli fuggiti all’estero. Bisogna, inoltre, sostenere e replicare esempi virtuosi che attraggono capitali economici ed umani, in cui “merito” è la parola chiave. Un esempio è il Polo di San Giovanni a Teduccio dell’Università Federico II di Napoli, nato dalla rigenerazione urbana dell’ex area industriale Cirio, oggi sede della Apple Developer Academy, di Cisco Digital Transformation Lab, di Intesa Sanpaolo Innovation Center e di molte altre realtà che lo hanno reso un polo tecnologico e di ricerca all’avanguardia, attrattore di giovani e di grandi aziende da tutto il mondo. È su realtà di questo tipo che bisogna puntare, oltre ad incentivare le imprese a investire in Italia e favorire l’autoimprenditorialità dei giovani, auspicando che le istituzioni e la politica facciano scelte coerenti e coraggiose per far ripartire il Paese investendo sui giovani e creando le condizioni affinché non fuggano.

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Ettore Nardi

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