Pubblichiamo uno scritto tratto dal libro “Ricordi forensi” , edito nel 1969, del compianto avvocato Mario Squitieri, già pubblicato sulla  rivista “La Giustizia” del 31 luglio 1946, dove si parla di Enrico De Nicola. Mario Squitieri fu giovane sodale ed amico di Enrico De Nicola, ma anche di altri principi del Foro come Giovanni Porzio, Giovanni Leone, Aldo Sandulli, Alfonso Tesauro e tanti altri. Il libro “Racconti forensi”, con una presentazione di Giovanni Leone, raccoglie 15 articoli su maestri del foro.  La volontà di ripubblicare questo articolo è nata dalla intenzione di riproporre modelli di comportamento ad una classe politica ed Istituzionale attuale che lungo la strada ha perso molti valori e soprattutto l’obiettivo del bene comune. Il problema del Paese resta la questione morale e i comportamenti etici dei cittadini e soprattutto dei rappresentanti delle Istituzioni.

È noto a tutti, ormai, che l’attuale Presidente della Repubblica Italiana, percorrendo a piedi la rapida ed amena stradetta dei Cappuccini di Torre del Greco, col treno delle otto precise, si recava a Napoli e di qui solo e sempre a piedi, iniziava la sua giornata di fecondo lavoro con una prima tappa al suo studio di Corso Umberto. Pochi sanno, pero, che il suo posto consueto era quello della terza classe e precisamente nella motrice; nessuna meraviglia, che se la Società delle Ferrovie secondarie avesse deciso di aggiungere al treno una quarta classe, l’illustre uomo, la avrebbe certamente preferita. In questa semplice ed umile manifestazione è  facile scorgere il vero temperamento di Enrico De Nicola, che alle altissime doti dell’intelletto e del cuore, unisce quella di una rara modestia, che lo rende caro a tutti e specialmente al popolo, al suo buon popolo napoletano.

Qui starete bene, c’è riparo dal sole e dalla gente, mi diceva spesso la mattina, incoraggiandomi ad occupare con sollecitudine il posto, allorché io, sfollato ai Cappuccini, avevo l’ambita fortuna di sedermi accanto a lui. L’intima soddisfazione di stargli vicino in quella mezz’ora di viaggio, poter conversare con Lui, che avevo conosciuto e cominciato ad amare fin dai primi anni della mia giovinezza, sentirmi raccontare fatti ed aneddoti della sua vita, politica, professionale e familiare, costituiva per me un’elevazione dello spirito; era come un soffio d’aria pura che valeva a distogliermi dalle infinite amarezze dell’esistenza. Sentivo che mi voleva bene con sincerità e senza infingimenti, per tutte le delicate premure che si degnava di avere per me, anche nel ricordo, devo ritenere, mai svanito, di mio padre e di mio fratello Nicola, per il quale, in occasione della fine immatura, ebbe commosse espressioni di vero cordoglio e rimpianto. Ricordo adunque, ed è storia assai recente, che nell’eccessivo affollamento della vettura, in mezzo a tanti popolani e borsari neri, che facevano la spola sui treni, egli non mostrava mai di rammaricarsene, anche se gli recassero molestia, come spesso avveniva, con cesti o sacchi colmi di ogni ben di Dio.

Continuava a conservare, invece, calmo e pacato, il suo viso aperto e leale, come se nulla avvenisse intorno a sé mentre la gente strepitava alla ricerca di pochi centimetri di spazio, tanto per mantenersi appena in piedi. All’arrivo a Napoli lo vedevo scendere dalla vettura agile e svelto con giovanile vigore, così come era ripartito, senza neppure la minima piega nell’abito, ne alcun segno di stanchezza in seguito a quel disastroso viaggio. Era questo, pensavo tra me, certamente un altro dei suoi segreti che traeva origine da una esistenza condotta con metodo anche nelle più modeste vicissitudini della vita quotidiana. In quella folla amorfa e tumultuosa del treno, egli si sentiva tranquillo; amava viaggiare nella solitudine dello sconosciuto, rifuggendo i fastidi e le convenienze della notorietà.

De Nicola ha un carattere decisamente volitivo. Mi raccontava che nella giovane età era stato un accanito fumatore, ma che poi da un momento all’altro, aveva smesso. Occorre imporsi a se stessi — mi diceva, appena mostrai la mia sorpresa per quella energica decisione in tronco — avere una norma e sapersi controllare. Una volta, passando da un aneddoto all’altro, mi raccontò che dovette partecipare ad un ricevimento al Quirinale nei primi giorni della sua nomina a Presidente della Camera. Avvicinatosi al Re, questi ebbe a notare l’assoluta mancanza di decorazioni sul suo petto; gliene chiese la ragione, pensando certamente ad una involontaria dimenticanza.

Maestà — gli rispose Enrico De Nicola — come potevo fregiarmene, se non sono neppure Cavaliere della Corona d’Italia? È inutile aggiungere, che il giorno dopo, il Re provvide a fargliele pervenire tutte in una volta. Appassionato entusiasta dei Cappuccini di Torre, pensò di farsi costruire su, in alto, quasi isolata nella vegetazione incomparabilmente ricca, una ridente villetta stretta da un fitto bosco di pini e dalla quale, per la veduta completa di tutto il cerchio del golfo, si offre allo sguardo del visitatore uno dei più incantevoli panorami del mondo. In quest’eremo di pace, poco distante da quello delle “ginestre” ; nel profumo dell’umida terra del vulcano, delle mortelle, degli eucalyptus e della resina, che costituivano per lui il balsamo salutare del respiro e dell’anima, De Nicola trascorreva buona parte della sua giornata nell’operante riposo della lettura e dello studio.

E quando al ritorno da Napoli, lentamente mi accompagnavo a Lui per l’erta e bianca via di campagna, che si schiude in un tripudio di luce, di giardini e di frutteti, Egli non mancava mai di accennare alla salubrità del luogo ed alla purezza dell’aria, sostando ogni tanto, man mano che ascendevamo il monte, per farmi notare la crescente diversità della frescura.
Ne ho fatto uno studio a parte — mi diceva sorridendo — e non mi sbaglio.
Vedete quel vecchio sul limite della sua casa — mi disse un giorno soffermandosi — che, vedendomi da lontano a stento si alza e si appresta a salutarmi? Ebbene, vi dirò, da quando venni qui a Torre, quest’uomo, tanto malandato in salute e mezzo paralitico, costretto a letto per tutta la giornata, non ha mai mancato di levarsi, al solo scopo di salutarmi nell’orario preciso in cui io parto e ritorno da Napoli. Non mi ha chiesto mai nulla. Dopo il saluto, si trascina nuovamente al suo lettuccio, per rialzarsi la sera con quest’unico scopo; e ciò in qualunque stagione e con qualunque tempo, anche il più freddo e burrascoso. Una volta, ricordo, per un affare imprevisto dovetti permanere in città. Risvegliatomi a notte alta, pensai di aver trascurato di far qualche cosa nella giornata; cercai di sforzarmi e di ricordare; la immagine di quest’uomo umile e devoto riapparve alla mia mente; pensai alla sua lunga ed infruttuosa attesa e me ne rammaricai; se avessi potuto, forse, gli avrei fatto le… scuse come ad un buon amico.

Questo discorso mi commosse e pensai per contrasto all’egoismo e alla vanità di tanti piccoli uomini, di fronte a questo gigante del sentimento e della bontà umana. Riprendemmo il cammino interrotto. Dalla soglia di un piccolo vano, una voce esile e timorosa, si fece udire: era quella del vecchio; la solita, che racchiudeva ieri come oggi, l’affetto, le benedizioni e l’augurio di tutto un popolo: Bona sera, Eccellenza.

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Mario Squitieri
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