La recente conclusione della istruttoria comunitaria sulla tassazione delle Autorità di Sistema Portuale e la decisione europea di considerare aiuti di Stato gli interventi nel settore della cantieristica dell’Autorità Portuale di Napoli, effettuati tra il 2002 ed il 2014, costituiscono una occasione per impostare una discussione più consapevole sulla configurazione giuridica di questi soggetti. Sinora, le reazioni, anche motivatamente, sono state più di pancia che di testa. La comunicazione della Commissione sull’avvio della istruttoria per la tassazione delle Adsp è giunta in un periodo di vacatio governativa nazionale, nella fase della campagna elettorale e delle votazioni per la elezione del nuovo Parlamento, nel 2018.
Non era quello il momento più adatto per avviare una analisi ed una discussione su un tema così delicato. È sembrato che la Commissione intendesse lanciare un segnale in una fase di inevitabile incertezza istituzionale del nostro Paese. Sarebbe stato più opportuno, dal punto di vista della forma, avviare il procedimento una volta insediato il nuovo Parlamento ed il nuovo Governo. Ora che questa fase è trascorsa da sufficiente tempo è giunto il momento per cominciare a riflettere a mente fredda sul percorso che si è determinato successivamente. Con la lettera di richiesta di chiarimenti, la Commissione non ha fatto che ribadire un orientamento ormai profondamente radicato: i porti svolgono una attività economica, e, prescindendo dalla loro forma giuridica, devono essere sottoposti a tassazione sul reddito prodotto. Rispetto a tale argomentazione i Governi italiani che si sono succeduti nel tempo non hanno mai contrastato questo orientamento europeo, che si è ormai radicato.
La difesa si è limitata a ribadire che, per effetto della configurazione giuridica delle Adsp quale ente pubblico non economico, non poteva applicarsi la equiparazione a soggetti che svolgevano attività economica. Già da molto tempo, ed in molte decisioni, la Commissione Europea aveva ribadito che conta la sostanza delle attività svolte, e non la veste giuridica degli enti. Anche in tema di aiuti di Stato vale lo stesso principio di fondo che corrisponde all’orientamento comunitario: essendo l’Autorità di Sistema Portuale un soggetto economico, al pari degli operatori, non è possibile ad avviso del legislatore comunitario che intervenga con risorse dello Stato per determinare un vantaggio economico ad uno dei concessionari.
Ciò ovviamente non vale – e lo dice la stessa Commissione – per gli investimenti destinati al potenziamento infrastrutturale quando essi sono finalizzati ad interventi a vantaggio di tutti gli operatori. Inoltre, è anche possibile finanziare gli investimenti rivolti ad un singolo concessionario, quando le risorse provengono però non da risorse pubbliche ma dalla stessa Adsp ed anche a condizione che si determini un ritorno economico rispetto all’investimento effettuato, in termini di maggiore canone per la concessione. Continuare ad argomentare alla Commissione che la configurazione delle Adsp italiane risponde al modello dell’ente pubblico non economico non serve assolutamente a nulla. Della forma giuridica con la quale sono organizzate le Adsp sono perfettamente consapevoli le stesse istituzioni comunitarie che, ovviamente, riconoscono tale assetto senza alcuna difficoltà, pur se ne traggono conseguenze radicalmente differenti rispetto al pensiero diffuso nella consapevolezza nazionale.
La Commissione Europea, il 4 dicembre 2020, ha concluso il suo procedimento sulla tassazione per i porti italiani, ed ha chiesto di abolire l’esenzione dall’imposta sulle società di cui beneficiano gli scali nazionali allo scopo di allineare il sistema fiscale italiano in materia fiscale alle norme UE in materia di aiuti di Stato. Secondo la Commissione i profitti che le Autorità Portuali traggono dalla loro attività economica debbono essere assoggettati alla imposizione ordinaria prevista per le società dalla legislazione italiana onde evitare distorsioni sulla concorrenza, Margrethe Verstager, Commissaria responsabile per la concorrenza, ha dichiarato che “la decisione indirizzata all’Italia – come già quelle rivolte ai Paesi Bassi, al Belgio ed alla rancia – ribadisce che concedere ai porti esenzioni ingiustificate dall’imposta sulle società falsa la parità delle condizioni concorrenziali e nuoce alla concorrenza leale. Queste esenzioni vanno quindi abolite”.
Secondo la Commissione Europea, l’esenzione dall’imposta sulle società conferisce ai porti italiani un vantaggio selettivo, violando così le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato. Nello specifico, l’esenzione non persegue un chiaro obiettivo di interesse pubblico, ad esempio la promozione della mobilità o del trasporto multimodale, mentre le autorità portuali possono utilizzare il risparmio di imposta che ne deriva per finanziare qualunque tipo di attività o sovvenzionare i prezzi praticati dai porti ai clienti, a scapito dei loro concorrenti e della concorrenza leale. Ora l’Italia dovrà adottare le misure necessarie per abolire l’esenzione, in modo da garantire che dal primo gennaio 2022 a tutti i porti si applichino le stesse norme fiscali che valgono per le altre imprese; l’Italia e l Commissione continueranno a confrontarsi su questo tema.
Le Autorità Portuali in Europa, ed in particolare nel Nord Europa, sono soggetti commerciali, generalmente organizzate secondo il modello giuridico della società per azioni, e svolgono un ruolo eminentemente economico, secondo un regime di libertà di impresa che consente loro di assegnare le concessioni sulla base di principi di mercato, senza necessariamente ricorrere a procedure di evidenza pubblica. Questa caratteristica ne rende snelle le decisioni, in modo tale che si possa operare secondo quel necessario principio di tempestività che caratterizza l’economia del nostro tempo. Gran parte dei vantaggi competitivi derivano oggi dalla capacità di cogliere tempestivamente le occasioni che si presentano per effetto di trasformazioni che spesso sono repentine, tali da non poter attendere i principi ed i riti delle gare pubbliche.
Non è poi detto che le procedure amministrative di evidenza pubblica siano necessariamente migliori in termini di trasparenza e di correttezza: la responsabilità degli amministratori, ed i principi di corretta ed efficace gestione degli asset, possono essere spesso meglio garantiti dalla sostanza delle decisioni, e non dagli involucri formali delle procedure, che certamente dilatano i tempi per operare le scelte. Insomma, registriamo, nella mappa delle architetture istituzioni sui porti europei, una netta divergenza tra l’assetto pubblicistico italiano, ed europeo meridionale, rispetto all’assetto privatistico (non nella proprietà, che resta pubblica, ma nella forma giuridica) dei porti del Nord Europa. Sin qui non vi sarebbe nulla di singolare: spesso in Europa accade che nella organizzazione economica si seguano orientamenti diversi tra i diversi Stati.
Il problema sorge quando però l’indirizzo della Commissione abbraccia la tesi sulla natura economica svolta dai soggetti portuali rispetto alla impostazione pubblicistica e non economica con la quale tale funzione viene considerata nell’ordinamento nazionale: è esattamente quello che è accaduto con il sistema portuale, nel quale ormai è consolidata la tesi comunitaria secondo la quale i porti svolgano una funzione commerciale, e quindi da questo punto non siano una pubblica amministrazione, pur se uno Stato nazionale, come l’Italia, decide di mantenere tale assetto normativo. Per effetto di queste divergenti impostazioni, i porti italiani si trovano tra l’incudine ed il martello: sono pubblici in Italia, e quindi soggetti a tutti i gravami delle norme pubblicistiche che comportano lentezze e procedure complesse, mentre sono privati in Europa, e quindi soggetti secondo la Commissione alla tassazione ed ai vincoli delle normative sugli aiuti di Stato.
Non è mica possibile essere competitivi stando contemporaneamente nel mezzo tra Scilla e Cariddi: occorre scegliere con chiarezza un solo indirizzo convergente tra l’assetto istituzionale italiano e quello europeo. Notoriamente, per le decisioni di maggiore rilevanza, la fonte istituzionale comunitaria è di rango superiore, e quindi verrebbe da dire che non dovrebbero sussistere dubbi su quale debba essere la configurazione istituzionale dei principali porti italiani gestiti dalle Autorità di Sistema Portuale. Un punto di mediazione potrebbe essere quello di “dividere idealmente il bilancio delle Autorità Portuali: da una parte l’attività non autoritativa, che concerne tutte le attività di impresa inclusa la messa a disposizione delle aree portuali (per il diritto europeo la concessione demaniale è equiparata ad un contratto di locazione – ed è questa una delle ragioni per la quale DG Concorrenza fino ad oggi non ha mai obbiettato alla estensione delle concessioni senza gara); dall’altra parte l’attività istituzionale in senso proprio, nell’ambito della quale si deve includere la funzione autoritativa e quella sulla realizzazione delle infrastrutture”.
Contrastare l’orientamento comunitario secondo cui i porti svolgono attività economica, non serve a nulla. Si tratterebbe di risalire la china di decenni nei quali è maturata una impostazione concettuale, modellata sulle preferenze dei porti del Nord Europa. Vale la pena piuttosto di interrogarsi su un altro punto, che viene messo in ombra dalla Commissione. Siamo davvero certo che tutti i porti europei siano tutti in concorrenza tra loro? Questa affermazione, implicita nella argomentazione delle istituzioni comunitarie, è molto più discutibile. Innanzitutto, ciascun porto, se si escludono gli scali con funzioni di transhipment, possiede geograficamente una sua catchment area, serve uno specifico mercato industriale e turistico di riferimento. Sono estremamente marginali i casi di riorientamento dei flussi logistici secondo itinerari di convenienza diversi dalla catchment area, utilizzando altri porti per ragioni di convenienza economica o funzionale.
Esiste poi una questione di assetto dimensionale delle infrastrutture che va considerata, per evitare di commettere un errore grossolano sull’assetto concorrenziale dei mercati. Su qualcuno affermasse che il porto di Castellammare di Stabia si pone in competizione con il porto di Rotterdam, il massimo che si potrebbe raggiungere è una risata grossolana. Eppure, il principio comunitario assume che tutti i porti siano in concorrenza tra di loro. Oltre al principio del mercato di riferimento, vale anche la differente funzione che ciascun sistema portuale svolge. Possono essere in competizione tra loro i porti hub, oppure tra loro i porti gateway entro il perimetro della rispettiva catchment area.
Se, come pare largamente dimostrabile, i porti europei non sono tutti in concorrenza tra loro, ne scaturiscono una serie di considerazioni. Vanno individuati cluster di porti, dal punto di vista dimensionale e territoriale, che siano comparabili tra loro per mercato servito. Solo all’interno di ciascun cluster si potrà poi applicare il principio della concorrenza tra scali. In secondo luogo, occorre aprire laicamente una discussione sulla forma giuridica delle Adsp in Italia. Siamo proprio certi che mantenere l’assetto dell’ente pubblico non economico sia la scelta più adeguata per assicurare la necessaria competitività e flessibilità nella governance delle Autorità di Sistema Portuale?
A me non sembra. Oggi rischiamo solo di subire due concentrici effetti negativi. Da un lato dobbiamo operare secondo criteri pubblicisti per la normativa nazionale, e quindi siamo soggetti a vincoli che rallentano la nostra capacità di operare scelte con responsabilità e con tempestività, dall’altro siamo soggetti alle decisioni comunitarie che ci assimilano a soggetti economici a tutti gli effetti. Sui vincoli pubblicistici sappiamo noi tutti bene quali ostacoli quotidiani debbano essere affrontati. Siamo tutti consapevoli di cosa significa applicare il contorto codice dei contratti pubblici per realizzare le opere infrastrutturali, oppure affidare per gara la gestione delle banchine. Nel causidico mondo della legislazione e della giurisdizione nazionale passiamo il nostro tempo più sulle procedure che sui contenuti, più sui ricorsi davanti ai giudici che sulle realizzazioni. L’apparente trasparenza delle regole pubblicistiche si traduce nella opacità temporale delle decisioni e delle esecuzioni.
Allo stesso tempo, per effetto della normativa comunitaria, le Adsp sono gestori di attività economica, e quindi non solo soggette alla tassazione, ma anche, per una svista delle istituzioni europee, anche alle regole della concorrenza, quando invece andrebbe su questo punto effettuato un approfondimento con la Commissione per comprendere i limiti profondi con cui tale concetto si può applicare ad infrastrutture che sono più monopolio naturale che non libero mercato. La veste istituzionale di ente pubblico non economico ha mostrato nel corso di questi anni tutti i limiti entro i quali viene ingabbiata l’azione delle Autorità di Sistema portuale. Le precedenti Autorità Portuali, prima della riforma del 2016, si sono barcamenate tra natura pubblicistica e natura privatistica, cercando di cogliere in modo opportunistico il meglio dalla doppia maglietta con la quale operavano, anche cin funambolici equilibrismi.
Tra le due polarità dell’assetto pubblico o privato può essere perseguito un terzo profilo, adottato con successo nell’ordinamento italiano, vale a dire l’assetto della società per azioni in mano pubblica, preservando il perseguimento di un pubblico interesse mediante le regole del Codice Civile. Varrebbe allora la pena di interrogarsi su quali profili di forma giuridica sarebbe opportuno orientare la cornice istituzionale delle Adsp, dovendo adottare una cornice istituzionale di carattere commerciale. La formula della società per azioni, che costituisce il normale riferimento quando si vuole assumere la veste di soggetto economico, richiede l’approfondimento di alcune questioni strategiche di grande rilevanza. Innanzitutto, quale può essere il capitale sociale dei nuovi organismi portuali? Assegnare in dotazione il patrimonio demaniale alle Adsp richiede, con ogni probabilità, come si è fatto nel caso di Rete Ferroviaria Italiana trasformata in spa, la definizione di una concessione di lunga durata.
Inoltre, se non si vuole dotare i novi soggetti dell’intero patrimonio demaniale marittimo, si può distinguere all’interno del patrimonio quella parte che deve restare indisponibile, quindi non cedibile al mercato, rispetto ad una parte di patrimonio non strumentale che può invece formare oggetto della iniziativa commerciale dell’Autorità. In alternativa, per evitare di rendere anche teoricamente vendibile il demanio marittimo, se ne può estrarre una parte che non ha rilevanza strategica sotto il profilo dello sviluppo marittimo, per conferire alla società per azioni portuale solo un compendio non strategico che può essere oggetto anche di valorizzazione o di operazioni di mercato, mentre le banchine restano nel patrimonio del demanio marittimo e sono affidate alla sola gestione delle Adsp. La proprietà delle società per azioni portuale deve restare nella sfera dello Stato, e, come abitualmente si opera in questi casi, l’esercizio del potere di azionista sta nelle mani del Ministero dell’Economia, mentre l’esercizio della funzione di indirizzo e di controllo sta nelle mani del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, esattamente come avviene con il Gruppo Ferrovie dello Stato.
Inoltre, va considerato che le Autorità di Sistema svolgono anche ruoli di natura pubblicistica che è opportuno mantenere nel perimetro della società per azioni: pensiamo al potere di ordinanza per la tutela dell’interesse pubblico, quando si devono ad esempio revocare o sospendere concessioni per consentire la realizzazione di opere infrastrutturali di capitale importanza. Con la forma della società per azioni questo importante strumento di intervento potrebbe non essere più utilizzabile, limitando per questa via l’operatività del sistema portuale. Varrebbe allora la pena di introdurre una norma speciale nell’ambito della trasformazione in società per azioni che consenta di poter continuare ad esercitare un ruolo pubblicistico. Andrebbero valutate opzioni che consentano di mantenere in capo ad una società per azioni anche poteri di ordinanza e di funzioni di polizia – almeno amministrativa, che sarebbero di estrema utilità per poter operare con efficacia nel perseguimento di quelle finalità di interesse generale che resterebbero in capo alle Autorità di Sistema Portuale trasformate in società per azioni.
In subordine, se non si riesce a sciogliere i nodi strategici coerenti con una trasformazione in spa delle Adsp che consenta da un lato di evitare rischi sulla privatizzazione proprietaria di asset di interesse collettivo e che consenta dall’altro di disporre di poteri autoritativi indispensabili per il perseguimento di funzioni di interesse generale, può essere utilizzata la veste giuridica dell’ente pubblico economico, che contempera al tempo stesso da un lato l’esigenza di operare con flessibilità e senza lacciuoli le scelte economiche necessarie e dall’altro il mantenimento di poteri pubblicistici che sono necessari a dare ordine in un sistema che richiede un potere sovraordinato rispetto ai concessionari. Restare nella attuale forma giuridica dell’ente pubblico non economico presenta solo la certezza di arroccare le Adsp in un formalismo burocratico che danneggerà l’evoluzione strategica dei porti italiani, rallentando l’esecuzione delle opere infrastrutturali indispensabili e spingendo sempre più queste istituzioni nella trappola dell’amministrazione passiva: che consiste nel rinviare le decisioni per non assumersi le conseguenti responsabilità dentro una gabbia di normativa di diritto amministrativo che intrappola nel formalismo cartaceo.
Una discussione su questi temi appare non solo matura, ma necessaria, per evitare che una riforma positiva, come quella Delrio, perda di efficacia mantenendo per le Adsp una forma giuridica troppo sbilanciata in senso pubblicistico, che ne depotenzia la capacità operativa e che pone i nostri porti in una condizione di minorità rispetto alla portualità del Nord Europa. Non esprimo certezze su temi che sono certamente delicati e complessi. Questo contributo intende essere soltanto l’apertura di una analisi che deve essere svolta sine ira ac studio, con una modalità che guardi innanzitutto all’interesse primario di dotare l’Italia di un sistema portuale maggiormente competitivo nell’interesse del Paese, dell’industria marittima, dell’economia nel suo insieme, della logistica e dello sviluppo turistico.
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