a Filippo de Jorio, prima e dopo il terremoto

Novembre 2020: a ripescare questo scritto mi ha stimolato il presidente dell’Ordine Architetti di Avellino Erminio Petecca, che ha aperto un gruppo Whatsapp di discussione dal significativo nome di “quarantannidopo” (allude al sisma dell’80). Lo scritto che segue percorre il mio rapporto con le “gradelle Miracoli” (dietro al Duomo di Avellino) prima e dopo il sisma (e sono l’introito e il congedo). A queste due parti (che pubblicai nel libro “Il labirinto di Mnème) si aggiunge questa premessa e fanno tre periodi che mi hanno occupato circa questa tragedia. Di questa, la parte materiale e l’evento sic et simpliciter sono il meno: molto riguarda invece l’interno delle persone e delle comunità e ‘il dopo’. Enrico Berlinguer si illuse che quell’evento disastroso potesse dare origine ad un rinascimento dell’etica, delle coscienze. Nessuno dei miei interlocutori in questa faccenda la pensa purtroppo così, neppure Stefano Ventura che ne ha scritto con la dovuta distanza e quindi obiettività nel suo libro “Storia di una ricostruzione”. Quanto a me vi racconto solo questo, per dire come la delusione non aspettò neppure una settimana da quel tragico 23 novembre: a qualche giorno dal terremoto ci fu un pranzo dopo un convegno a Lacedonia (c’era Rossi Doria, mio padre, vari sindaci, autorità, ed altri).


Alla mia sinistra c’era Salverino De Vito (allora presiedente della commissione bilancio al Senato) di fronte il sindaco di un comune colpito di cui ometto il nome per riserbo. Salverino de Vito al sindaco: – Dovete immediatamente varare i piani urbanistici.! –. Ed io: – Sindaco, una settimana fa ho presentato il piano di fabbricazione, ricordi? –-, De Vito: – Allora lo dovete adottare subito! –. Silenzio del sindaco: non fu adottato. C’era ancora odore di morte e già si pensava a ben altro, ben altro. Dopo sei mesi di lavoro ad un Piano Territoriale di Ricostruzione per nulla digerito dalla Comunità Montana Alta Irpinia, redatto quale capo dell’Ufficio Tecnico, fui licenziato con tutti e 10 i tecnici dell’ufficio: stavano arrivando i soldi della ricostruzione, quelli dei maledetti buoni-contributo. Il sogno di Berlinguer non ci fu neppure bisogno di infrangerlo.
Oggi preferisco ricordare il ‘mio’ terremoto’, quello che è successo dentro di me e, penso, dentro tutti quelli ‘di buona volontà’, come i cinici un po’ ironicamente e con sufficienza ci chiamano.

Gennaio 1980: erano trascorsi due mesi dal sisma del 1980. Un pomeriggio cinereo mi spinse a ritornare su quei luoghi della memoria: macerie senza senso, senza neppure più l’odore della tragedia, il sapore del dolore. Tirandomi dietro mio figlio piccolo, nel tentativo di passargli un brano di una città perduta per sempre, un pezzo della mia vita, branco­lavo disorientato alla ricerca di quelle «gradelle Miracoli» dove avevo imparato tutto ciò che sa­pevo fare con le mani e con la testa. Non era decisamente una bella gita per un bimbo, eppure ero certo di poter­gli rac­contare di quella bottega d’arte in quell’antro dietro il Duomo, di disegnargli quella parte della città che, cancellata dalla topografia urbana, già scoloriva in quella della mente. Eravamo diversamente sgo­menti su quelle rovine da cui inarrestabilmente volatilizzavano le ultime storie come da un’ampolla di ètere…

Primavera 1958: Potevo arrivare alla bottega-studio del professore in due modi: dalla piazza del Duomo, per una viuzza a destra che vi s’incurva, o dal Corso che portava alla ferrovia, in­filandomi dietro la monumentale “fontana delle tre cannole”, per le gradonate che s’inerpicavano decise – prima a due, poi a un braccio solo – verso il giallo muro del Seminario. Raggiun­gevo così la bottega, a “gradelle Miracoli”, che ridiscendevano il clinare sbu­cando di nuovo su Corso Ferrovia, più giù della fontana. Un minuscolo viaggio di secoli in mezzo alle vecchie case che pendevano or da una parte or dall’altra del colle, bloccate con la loro greve materia in una cadente fissità.

Bottega contro bottega, si andavano scambiando fra­si e riflessioni che lascia­vano un soffice strato di rassicurante tranquillità, come di cose sistemate al loro po­sto, al posto di ieri.
– Professo’, domani voglio proprio giocare al lotto! Mi è venuto stanotte un sogno che vo­leva dire qualche cosa…ma qualche cosa… Chissà, una buonanima dall’altro mondo… certe occasioni si devono acchiappare!
– Ma questo sogno, com’era?
– Lo sapete che i sogni non si raccontano, se no i numeri non escono. Ma in quello mio c’era qualche cosa … c’era qualche cosa … che se poi non era niente, io niente ci ho perduto: due sigari in meno e buona notte.
– Tentar non nuoce: ce lo giochiamo insieme un bel terno?
– E come no? io i numeri ce li ho… sono i numeri di quel sogno. Adesso ve li posso dire perché a chi li gioca insieme si possono dire… ma il sogno no, il sogno no…

E cavò da una delle tasche afflosciate della giacca, tra figurelle di santi e ma­donne e manife­stini pubblicitari accumulatisi nel tempo, mezza pagina di quaderno di scuola dalle righe ormai pallide.
– Ecco qua – e inforcò lentamente gli occhiali aggiustandoseli più volte sul naso.
La luce aveva abbandonato del tutto le gradelle stendendosi solo sullo slargo sottostante, ancora per poco fremente di blandi riverberi. Il calzolaio avvicinava e allontanava dagli occhiali, come in un esame oculistico, la mezza pagina di quaderno.
– 16, 48 … 16, 48 e …– ripeté deciso.
– Ci vuole il terzo numero per il terno…
Eggià, il terzo numero…
Le poche persone che salivano trascinandosi o che scendevano con marcati scalpiccii, all’altezza delle due botteghe si giravano come a voler seguire il discorso; poi affrettavano il passo sfumando nella penombra.
– Il terzo numero…il terzo numero…

Filippo De Jorio

Il professore era rientrato per un istante nello studio per riporre il pezzo finito e pren­derne un altro. Io intanto ero giunto alla bottega e mi ero infilato nel grande antro con quell’attenzione al silenzio che si ha quando si entra in chiesa a messa iniziata: infondo in quello spazio mi ero sentito sempre un po’ in chiesa anche prima di sapere che era lì che un tempo si custodivano le statue dei Misteri del Duomo; e i vicini vi entra­vano sempre con grande riverenza e ri­trosìa, per questo. Noi ragazzi ne approfittavamo e producevamo di proposito suoni sordi battendo sulla porta col martello di legno che serviva a sformare le forme di gesso; specie le ragazzine del quartiere ci cascavano di brutto e guaivano terroriz­zate o fingevano per vezzo, agitandosi sul posto senza scappare. Il professore si manteneva apparente­mente serio e comunque copriva il nostro gioco, come sempre. Lo chiamavano tutti “Pippetto”, ma noi ragazzi ci per­mettevamo di farlo solo in sua assenza, per rispetto (per me aumentato dal suo mattutino ruolo di professore di storia dell’arte al li­ceo “Colletta”). Neanche da architetto ci sono riuscito a chiamarlo per nome e dargli del tu, no­nostante egli insistesse. Ora era ritornato alla soglia mostrando ancora interesse alla conversazione con il ciabattino:

– Allora, il terzo numero?
L’altro aveva smesso di battere la suola sulla forma di ferro che teneva sul­le ginocchia e, alzando gli occhi al cielo come per ispirarsi, aveva lasciato immo­bile la mano, col martello ancora nell’ultimo colpo: un quadro del Caravaggio, stessa vivida luce a strappare la figura dal fondo fosco, a bloccarne i gesti in una dinamica fissità. Ormai facevano fatica a lavorare lì sulla porta tutt’e due: la luce era spinta dalle om­bre a perdersi sem­pre più e le rade lam­pade pubbliche aumenta­vano il bagliore mano mano. Anche il discorso andava morendo finché, con gli oggetti ancora tra le mani e le facce scavate dal buio crescente, scorgendosi appena dai due lati delle gradelle, ognuno si dette a pen­sare a cose diverse. E se ne stavano assenti a vi­cenda, quasi il buio sopraggiunto avesse reciso ogni rap­porto, ogni comunicazione, disperdendo volti, gesti, parole. La mezza pagina sdrucita, coi numeri belli grandi scritti a matita e sottolineati uno per uno, gia­ceva ancora sul deschetto tra la colla di pesce e i chiodi, animandosi ad ogni fremito di brezza, quel tanto che le tenaglie permettevano, premuta su un angolo come da un fermacarte. E sventolava metà bianca e metà scura, finché, ridestatosi dai pensieri, il calzolaio non l’ebbe ripresa con delicatezza, traguardandola attraverso gli occhiali che continuava a sistemare alla ricerca della messa a fuoco:

– 16, 48 e …
Il professore si era ritirato nel buio della bottega, scambiando con me parole nel nostro gergo mentre ripone­vamo certi oggetti in ordine: segno che si doveva chiudere, tanto più che gli altri ragazzi di bot­tega non s’erano fatti vivi per tutto il giorno, inutilmente at­tesi dai pezzi da dipingere, che ripo­savano rassegnati sulle tavo­le di compen­sato. Più discosto, i pochi già dipinti ostentavano alla scarsa luce i lustri sottosquadri.
– Allora, lo vogliamo giocare questo terno?  – diceva il professore con quell’interrogativo ironico non necessitato alla risposta; e intanto riponeva i pennelli sciacquandoli e asciugandoli uno ad uno come bi­sturi dopo un’operazione.
– Ma per il terno ci vuole l’altro numero…l’avete detto voi…! fece il calzolaio. Poi si mi­se a ripassare quel benedetto sogno forse cercando il ‘terzo numero’, e conti­nuava a premere le palme aperte sulle ginocchia, strofinandosele di tanto in tanto e ac­compa­gnando il tutto con una leggera ondula­zione dell’intero busto. Lo guardavo come se avessi scoperto il modo con cui gli artigiani stimolano la memoria, al posto del grattarsi in testa. Aveva del tutto smesso di lavorare sogguardando a 30° in alto davanti a sé, come se attendesse la luminosa apparizione in cielo del terzo numero.

Mentre l’ostinazione di quell’uomo scavava e scavava nella memoria del suo sogno sognato, il professore s’affacciava e rientrava ad intervalli, finché non si fu tolto il ca­mice in cerca della grossa chiave della porta, che puntualmente si smarriva con malizia tra le centinaia di oggetti appesi, riposti, poggiati; e continuava a tastare i mucchi di disegni, alzare straccetti sporchi di tempera e china, rovistare tra i barattoli e attrezzi ché quella maledetta chiave, grossa com’era, si sarebbe pur do­vuta trovare. Avevo nel frattempo smontato il battente della vetrina per poi rientrarlo ed appog­giarlo al primo palo, quello rosso, come si faceva sempre. Il calzolaio, perso il profes­sore, prese a guardare dalla mia parte come se intendesse eleggermi in extremis a supplente. Mi ritirai in tempo nel buio dell’interno con il battente tra le mani. E intanto che si cercava la chiave, quello là fuori s’era alzato e ap­poggiato allo stipite della sua bottega e ci aspettava al varco.
S’era fatto tardi e ci premeva andar via: a quell’ora lo stanzone irregolare, tutto dolorante di scricchiolii, assumeva un tetro aspetto, amplificando – nell’assenza di voci coprenti – ogni mi­nimo gemito delle vecchie travi e ogni sbriciolìo dei calcinacci che crepitavano continuamente sulla tela del soffitto. Finalmente la chiave fu trovata, in un posto insolito come al solito, e si poté chiudere il pesante e cadente portone, energici giri di chiave all’unicrono con calibrati scossoni suggeriti dall’esperienza.

– Allora, il terzo numero?
– Pensateci stanotte… siamo ancora a giovedì!
– Speriamo a quell’anima santissima del purgatorio… E ripiegò il biglietto come una reliquia, continuando a tenerselo tra due dita, come un’ostia bene­detta. Noi avevamo risalito le gradelle, imbevendoci della luce che d’ogni parte c’investiva dai lam­pioni della strada curva intorno al Duomo, e parlavamo di tecniche per incidere, scolpire, dipingere, di arte, di architettura, come in un ripasso di lezioni mai date eppure ricevute. Il portale settecentesco della bottega ingoiata dal buio scomparve per sempre dalla mia vista, dietro di noi frusciava un gruppo di orfanelle e un paio di suore nel sommesso fanciullesco bisbi­glìo del loro rientro dal Vespro, come chissà quante altre volte.

Gennaio 1980: a metà della striscia di rovine che erano state le “gradelle Miracoli” riconobbi la chiave di volta del portale con la data: 17… scheggiate le ultime cifre per la caduta di altri rocchi di pietra: e scomparse, anche nella mia memoria. La in­dicai a mio figlio Mauro (in realtà a me stesso), emergente a stento tra pali troncati, massi di pietra e zolle di calcinacci: alla fine, quei pali in eterno equilibrio in­stabile avevano consegnato l’antro dei Misteri alla sua tragica condi­zione di finale quiete. Cosa che mi sembrò di una logica lucida, piena di agghiacciante dolorosa necessità, com’è giusto che la morte appaia ai vivi. Ora che Pippetto il professore ha varcato l’antro per l’ultima volta e che non può più insegnarmi a parlare, a scrivere, a dise­gnare, a dipingere, a viaggiare nelle arti, mi domando se mi è rimasto dentro tutto quello che serve perché questo passato abbia un senso fu­turo.
… E chissà se quei numeri furono poi mai giocati.

Aldo Vella
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