L’occasione storica mancata per lo sviluppo del Sud
L’istituto regionale compie i suoi primi cinquant’anni di vita, essendo stato istituito 22 anni dopo il dettato costituzionale. Sull’operato delle regioni si susseguono periodicamente giudizi negativi, mentre si moltiplicano i conflitti tra centro e periferia, conflitti che vedono contrapposte persino le regioni gestite da stesse forze politiche anche per quanto riguarda l’assegnazione delle risorse tra Nord e Sud del Paese accentuandone addirittura lo storico divario. Qualche autorevole osservatore ha sostenuto che le regioni dovevano costituire la soluzione dell’annoso problema dello Stato, sono invece divenute esse stesse parte del problema, complicatosi con la modifica del Titolo V della Costituzione, l’avvento del federalismo fiscale e il progetto di autonomia differenziata portato avanti da alcune regioni del Nord del Paese. . Sui mancati obiettivi e sulle possibilità che le regioni possano recuperare il ruolo loro assegnato dalla carta costituzionale, occorre oggi aprire un’approfondita riflessione a 360 gradi che dovrà vedere partecipi i maggiori attori della scena politica nazionale e locale del Paese. Intanto proponiamo ai nostri associati un primo confronto che potrà partire da alcune considerazioni, molte delle quali ancora attuali, contenute in un intervento tenuto a Pomigliano d’Arco nel 1972 (all’indomani dell’insediamento dello stabilimento dell’AlfaSud), dal presidente dell’Associazione lnternazionale Guido Dorso, Nicola Squitieri che qui di seguito pubblichiamo.
Regioni: l’occasione storica mancata per lo sviluppo del Sud
di Nicola Squitieri
Di « questione meridionale » si inizia a parlare all’indomani stesso dell’Unità d’Italia. Il prezzo pagato dal Mezzogiorno per l’unificazione si fece infatti ben presto sentire: al Nord un’economia in via di industrializzazione, al Sud invece un’economia fondata su strutture agricole antiquate, creavano infatti quella netta discriminazione, che ancora oggi non vede la sua naturale conclusione. Su questo periodo e su quello più recente, fino alla seconda guerra mondiale, non mi soffermerò poiché esso è stato ampiamente trattato dall’amico Settimio Di Salvo in quella conferenza che proprio qui, a Pomigliano, si tenne l’anno scorso, ad inaugurazione dell’attività sociale del nostro sodalizio. In essa fu esaminata, con felice sintesi, l’idea regionalista dei grandi meridionalisti, alla luce delle alterne vicende storiche e politiche che accompagnarono attraverso i tempi la « questione meridionale » e fu individuato lo stretto rapporto intercorrente tra i termini di regionalismo e meridionalismo. Per rendere perciò più organica possibile la trattazione del tema, peraltro vastissimo, passerò ad esaminare il problema del Mezzogiorno, alla luce della politica meridionalistica degli anni ’50 e della recente esperienza regionale, ricordando soltanto che lo Stato, nato dall’Unità, fu costruito su di un modello rigidamente centralistico, dopo secoli di visioni comunali e municipalistiche, sfociate in dominazioni straniere e con spiccate caratterizzazioni napoleoniche, a livello amministrativo-burocratico, per la presenza dei due stati pre-risorgimentali, quali il Regno di Sardegna e quello di Napoli. Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, così profondamente animati di idee, ed aspirazioni – dopo un oscuro periodo storico – anche il problema del Mezzogiorno esplose pubblicamente ed il pensiero e l’opera dei grandi meridionalisti fu oggetto di ampia e meditata rivalutazione da parte della classe politica e degli ambienti culturali.
Programmazione economica e politica di intervento nel Mezzogiorno furono due linee di fondo della politica economica di questo periodo che finirono con il convergere alcuni punti e che aprirono nelle forze politiche del Paese un approfondito e appassionato dibattito. Non mancò però purtroppo in tale occasione una certa confusione nelle opinioni relative con certi provvedimenti operativi cui la programmazione avrebbe potuto tradursi. Il risveglio della « questione meridionale », come fu definito nel secondo dopoguerra, rappresentò la più efficace testimonianza del fatto che – come acutamente scrisse nel 1952 Giorgio Napolitano – tutti i tentativi fatti dal fascismo per ingannare le popolazioni meridionali e spegnere in esse ogni coscienza delle proprie condizioni ed ogni fermento di rivolta, e per deviare l’esigenza della soluzione dei problemi del Mezzogiorno, verso il mito « imperiale »; tutte le goffe affermazioni sul superamento della questione meridionale, messe in circolazione dal regime per far scomparire i problemi di fondo dell’economia della società italiana dal dibattito nazionale, non hanno alla fine approdato a nulla; e non appena l’illusorio equilibrio economico e sociale, in cui i ceti privilegiati credevano di essere riusciti a costringere il Paese, si è rotto nella guerra, il problema del Mezzogiorno è riemerso più acuto e più urgente che mai, in quanto aspetto fondamentale del grande problema del rinnovamento delle strutture della società italiana.
Bisognò arrivare al 1950 per impostare una nuova e globale politica meridionalistica. La Cassa per il Mezzogiorno e gli stessi provvedimenti di riforma agraria e fondiaria possono essere considerati la conseguenza, in termini operativi, della evoluzione della questione meridionale nel dopoguerra: da problema principalmente politico e sociale a problema economico. Il governo affrontava così finalmente i più profondi squilibri del Paese, intervenendo con un non lieve sforzo finanziario. Purtroppo li affrontava isolandoli dal contesto generale delle linee di sviluppo dell’economia italiana, non solo nel lungo periodo, ma nello stesso medio termine durante il quale si sarebbe protratto l’intervento. La stessa meritoria azione della Cassa per il Mezzogiorno risentiva a lungo andare del l’appesantimento delle sue strutture centralistiche. Ridimensionare la portata storica e il significato politico che i provvedimenti degli anni ’50 certamente ebbero, non vuol dire però non riconoscere, che molto fu comunque realizzato in una situazione in cui da un lato i partiti di sinistra all’opposizione accusavano i provvedimenti proposti di non aver rispettato il senso della norma costituzionale che sanciva l’intervento di retto delle autonomie locali per lo sviluppo della società ita liana, e quindi di aver sostituito alle Regioni la Cassa per il Mezzogiorno, e di non aver integralmente applicato, nel definire le linee della riforma fondiaria ed agraria, quanto previsto dalla Costituzione, limitando invero gli interventi per non ledere, se non nella misura minima possibile, i più forti interessi precostituiti.
Dall’altro lato, i gruppi economici e finanziari accusavano i provvedimenti degli anni ’50 stornare una quota rilevante dei già scarsi mezzi a disposizione, per dirigerli verso investimenti a produttività incerta e comunque minore rispetto a quella di altri investimenti possibili e di compromettere il già precario meccanismo di sviluppo che si andava configurando. Presi così tra questi due diversi fronti e soffocati dalle varie pressioni i due maggiori avvenimenti dì politica economica del dopoguerra nacquero certamente condizionati da notevoli limiti ed avulsi dai processi che caratterizzarono l’espansione economica del Paese. Gli anni compresi tra il ’54 e il ’57 portarono invece sostanzialmente a una completa revisione ed a una nuova impostazione della politica meridionalistica. Se si considera infatti come avvenimento più significativo di questo periodo la redazione dello schema Vanoni e le sue successive elaborazioni, si dovrà ad esso indubbiamente attribuire due fondamentali derivazioni: da un lato il reinserimento dei problemi del Mezzogiorno nel contesto dell’economia nazionale; dall’altro l’individuazione del mezzo di superamento definitivo dei problemi dell’arretratezza nella creazione di un meccanismo autopropulsivo di sviluppo nelle aree meridionali, attuato attraverso una politica di industrializzazione.
Certamente perciò lo schema Vanoni rappresentò la prima effettiva occasione di una sintesi tra problema del Mezzogiorno e problema della programmazione economica nazionale, nella misura in cui lo schema stesso può essere effettivamente considerato un esempio di programmazione. Occorrerà comunque riconoscere allo schema Vanoni il merito di avere risvegliato un interesse consistente per la programmazione economica quando esso sembrava ormai essere clamorosamente decaduto. Gli anni ’50 avevano così portato all’affermazione sostanziale di due tesi di fondo: l’esigenza di una programmazione dello sviluppo e dell’avvio di un processo di industrializzazione nel Sud e portata nazionale del problema meridionale. Tesi quest’ultima che caratterizzò certamente tutta la successiva azione politica dei governi democratici succedutisi dal ’60 in poi. Il 1961 fu infatti considerato – in occasione del dibattito parlamentare sulla I Relazione del Presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno svoltosi nei mesi di gennaio e febbraio di quel l’anno – il « momento di chiusura della questione meridionale », intesa in senso tradizionale, e di riapertura della stessa come « questione nazionale », in termini nuovi e moderni nel quadro di una politica di piano.
Nel corso del dibattito parlamentare emerse da parte di tutti i gruppi politici, pur con di verse motivazioni, la constatazione dello scarso successo della politica attuata per mezzo del1a Cassa, nei suoi primi dieci anni di vita. Le vicende politiche degli anni ’60, caratterizzate dall’incontro tra cattolici e socialisti, sono poi cronaca dei nostri giorni e di cui non è possibile ancora trarne una obiettiva valutazione. Alla fine degli anni ’60 il problema del Mezzogiorno ha però rischiato di perdere quell’interesse, che aveva fino allora rivestito per la classe politica e la pubblica opinione a causa sostanzialmente dell’eccessiva ripetizione di temi troppo spesso a lungo sfruttati e strumentalizzati e di uno scarso e « stanco » impegno politico e culturale da parte di tutte le forze meridionaliste. L’attuazione dell’ordinamento regionale – che completava il discorso istituzionale – doveva perciò rappresentare, agli inizi degli anni ’70, l’auspicio migliore per il rilancio della politica meridionalistica. Il regionalismo costituisce infatti per il Mezzogiorno il momento di rottura del giogo tradizionale; capace di rendere operante quella democrazia partecipativa che chiama le popolazioni ad essere protagoniste delle loro indifferibili esigenze di avanzamento economico e sociale.
L’esperienza regionale può essere considerata quindi – senza tema di esagerazioni o di previsioni pessimistiche – l’ultimo banco di prova per la soluzione del problema meridionale. Le Regioni infatti potranno determinare la nascita di un nuovo meridionalismo, che potrà assumere il carattere di una svolta storica decisiva. Ma il problema principale, al quale sono legati tutti gli altri, è quello dell’autonomia finanziaria delle Regioni. Bisognerà impedire con fermezza che le Regioni più povere del Paese -non essendo in grado di assicurare un autonomo, soddisfacente livello di spesa -manifestino immediatamente uno scarso grado di efficienza operativa ed una perdita di peso politico. Sarà inoltre necessario che tutte le Regioni e quelle meridionali in particolare modo abbiano in maniera completa quel ruolo che ad esse assegna la Costituzione, senza instaurare – come sta purtroppo avvenendo in questi ultimi tempi – un pericoloso « tiro alla fune » tra lo Stato che detiene ancora intatti tutti i suoi poteri e le Regioni che ne rivendicano la paternità costituzionale, chiarendo una buona volta per sempre – con l’emanazione delle leggi quadro – le rispettive sfere di competenze, affinché non avvenga ciò che già nel lontano 1949 Gaetano Salvemini profetizzava, quando affermava: «L’Italia, dunque dovrebbe avere diciannove ” Regioni ” ». Ma i rapporti di queste “ Regioni “ con il governo centrale e le istituzioni inferiori preesistenti rimasero nelle nuvole. E così continuava: “Regione fu una specie di mondo ideale, nel quale ognuno trasferì tutte le meraviglie che non trovava nella provincia, senza mai né definire quelle meraviglie né dimostrare che esse delizierebbero la Regione, senza mai poter deliziare la Provincia” .
Immaginare oggi una conflittualità permanente tra Stato e Regioni, significherebbe voler fare fallire miseramente una esperienza esaltante della nostra giovane democrazia. Il Paese ne pagherebbe a caro prezzo le spese in un momento in cui la realtà comunitaria si fa sempre più pesantemente sentire. Bisognerà poi tenere nel debito conto che le Regioni sono state concepite nel 1947, cioè quando l’Italia era dotata di una economia agricola che assorbiva ben il 55% della sua popolazione e vengono attuate oggi, cioè un quadro economico e sociale profondamente diverso, caratterizzato dalla presenza massiccia dell’industria che rende sempre più impetuoso e rapido il processo di crescita.
Gli statuti regionali hanno cercato e, in gran parte vi sono riusciti, di interpretare la nuova realtà sociale del nostro Paese, ricca di istanze e di contraddizioni, in un momento in cui lo Stato ha dimostrato l’incapacità di far fronte a taluni fondamentali problemi che la Società pone indilazionabilmente. opportuno quindi rivendicare al nuovo Ente regionale tutti i poteri decisionali per la politica di intervento nel Mezzogiorno. La stessa Legge di rifinanziamento della Cassa per il Mezzogiorno per il quinquennio 1971-’75, approvata recentemente, rappresenta un primo, grave tentativo di riservare ancora agli organi centrali molte competenze delle Regioni, a cui è consentito soltanto infatti di formulare i «progetti speciali», lasciando al potere di deliberare in attuazione del Programma Economico Nazionale.
Le Regioni meridionali dovranno partecipare alla programmazione come protagoniste per attuare una nuova politica tesa ad un più equilibrato ed armonico sviluppo economico e sociale di tutto il Paese, intervenendo attivamente nel la loro successiva gestione. Del resto lo stesso Programma economico nazionale 1971-75, pur ripetendo vecchi schemi del passato, punta molto sulle Regioni, ponendo l’esigenza di una profonda trasformazione dell’autorità centrale in un complesso « di organi di indirizzo, coordinamento ed intervento funzionale » e della piena attribuzione alle Regioni dei compiti principali di amministrazione attiva, e gestione dei servizi collettivi, con la specifica richiesta che in tal senso « vengano applicati con ampiezza i principi costituzionali degli artt. 117 e 118 sul trasferimento delle funzioni e degli uffici dallo Stato alle Regioni ». Il piano nazionale dovrà risultare dal coordinamento dei singoli piani regionali, piuttosto che essere redatto a priori e venire successivamente adeguato per disaggregazione alle singole realtà regionali. Indispensabile poi un collegamento tra programmazione economica, assetto del territorio ed interventi per il Mezzogiorno.
Le Regioni dovranno perciò approvare al più presto le Ipotesi di Assetto Territoriale per realizzare una efficace programmazione che operi uno sviluppo economico su basi «policentriche», senza le quali non è possibile ottenere quell’equilibrio che deve essere alla base di ogni evoluzione sociale. Il discorso sul mancato processo di industrializzazione del Mezzogiorno, dovuto essenzialmente alla carente creazione di infrastrutture e di nuovi investimenti pubblici delle Partecipazioni statali, non si conclude purtroppo con l’azione delle Regioni, le quali non hanno in merito precise competenze; ma si pone da parte del nuovo istituto regionale in termini di una esatta distribuzione degli insediamenti industriali e delle infrastrutture, attraverso una moderna politica di riassetto del territorio, che tenga in debito conto l’ordinato sviluppo economico ed urbanistico in un’ottica di tempo non limitata agli anni presenti.
Un disordinato sviluppo economico, senza un efficiente e programmato assetto del territorio porta tristemente a delle conseguenze negative che sono a tutti facilmente comprensibili. Basta vedere città come Napoli e la sua fascia costiera, Bari, Taranto che sembrano tante Calcutta per il traffico caotico, il completo disordine urbanistico e l’aria che diventa sempre più irrespirabile. Ma se vogliamo guardare ancora più vicino, basterà osservare come l’industriosa cittadina rurale di Pomigliano – oggi diventata il polmone industriale del Mezzogiorno con i suoi importanti complessi – sia rimasta, con le sue vecchie strutture, con i suoi inadeguati servizi sociali e con il suo disordinato assetto urbanistico, ancora una cittadina rurale e non abbia acquisito in questo suo frenetico sviluppo l’aspetto di un moderno centro industriale, producendo anzi svantaggi di carattere sociale, economici e residenziali, per i forti squilibri che comportano quasi un « rigetto » della sua struttura industriale.
Ricordando la vocazione rurale di Pomigliano, come quella di tutto il Mezzogiorno, è doveroso sottolineare che l’agricoltura, settore principale e primario dell’economia meridionale deve restare il settore portante sia come attività vera e propria per i fertili terreni, a cui le Regioni dovranno provvedere, con l’approvazione dei piani zonali ed un massiccio intervento di trasformazione e ristrutturazione, per eliminare gli attuali squilibri; sia per le attività indotte che genera: industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, acquisto di mezzi tecnici, commercio, artigianato, ecc. Ma l’agricoltura, oggi più che mai, deve essere salvaguardata da un disordinato sviluppo industriale, allo scopo anche di non compromettere oltre il già grave problema ecologico e della difesa dell’ambiente. Perché se l’acqua e l’aria sono inquinate, non solo non si potrà più operare in agricoltura, ma sarà anche difficile agli uomini vivere o addirittura sopravvivere.
Ma il problema del Mezzogiorno è anche e soprattutto un problema di carattere umano che nasce dall’esigenza di dare al Sud una classe dirigente meridionale nuova e modernamente preparata. Essa dovrà concepire tutta l’azione economica in senso meridionalistico. Dalla volontà politica della classe dirigente e dall’appoggio delle forze sociali potrà dipendere infatti in misura decisiva la soluzione della « questione meridionale ». A questo proposito non è possibile condividere ciò che afferma Francesco Compagna quando chiede che il rinnovamento dei quadri dirigenti del Mezzogiorno deve passare attraverso l’impegno di uomini estranei agli ambienti tradizionali del Sud, reclutabili al Nord; ma si può invece essere d’accordo con il parlamentare napoletano quando propone di localizzare nel Mezzogiorno nuove sedi universitarie e nuovi centri di ricerca scientifica per la preparazione di una nuova, qualificata classe dirigente.
Bisogna insomma dar vita ad un nuovo costume amministrativo e politico, per la eliminazione del sottobosco clientelare dominante nelle strutture pubbliche, creando governi locali autenticamente democratici. Questo non è un atteggiamento moralistico invocato soltanto dai grandi meridionalisti « classici », prima fra tutti Guido Dorso – ma una esigenza imprescindibile per il riscatto del Sud. Con l’attuazione dell’ordinamento regionale si è indubbiamente creata una grande occasione per un rinnovamento anche in questo senso: una occasione e una possibilità che dovranno saper cogliere e realizzare i partiti politici, i sindacati e tutte le forze vive della società civile.
Soltanto così la trasformazione regionalistica dello Stato non si ridurrà ad un mero trasferimento di poteri amministrativi alle Regioni, ma sarà l’inizio ed un momento decisivo di un diverso modo di organizzare la società politica meridionale ed italiana a tutti i livelli, per favorire e rendere sempre più effettiva l’auspicata partecipazione delle popolazioni alla vita politica e amministrativa del loro Paese. In questa prospettiva un ruolo particolare dovranno avere nella realtà regionale le nuove generazioni. Noi giovani ci poniamo perciò nei confronti del nuovo istituto regionale in una posizione di fiduciosa attesa e di attivo contributo che dovrà fondarsi soprattutto sullo studio e l’approfondimento del suo meccanismo funzionale, che solo se corretto da una forza propulsiva efficace ed allo stesso tempo competente, quale quella che può essere formata dalle nuove generazioni, potrà dare quei risultati necessari per non perdere forse l’ultima occasione per avvicinare le nuove energie alla gestione democratica del Paese.
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